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L’AVVOCATO VENZIANO.

di Carlo Goldoni

Commedia di tre atti in prosa.

A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR

BERNARDO VALIER
PATRIZIO VENETO E SENATORE AMPLISSIMO

 

Quand’ebbi l’onore di dedicare a V. E. il mio Avvocato Veneziano, ella copriva allora l’illustre, autorevole carico di Avvogador di Comun. Per questa via, tanto onorifica, quanto difficile e laboriosa, ella è pervenuta al grado eccelso di Senatore, ed io in questa mia novella edizione mi consolo con V. E. che lo ha meritato, e con l’augusta Patria che ha riconosciuto il merito e ricompensato. Infatti, che altro fa una Repubblica, esaltando e ricompensando i suoi Cittadini, che dar gloria a se stessa ed animare i membri che la compongono ad esser utili al suo Governo? Fra tutte le strade che conducono i Patrizi Veneti alla dignità Senatoria, V. E. ha calcato la più spinosa; ma là è, dove ha potuto meglio brillare il di Lei talento, esercitando la pietà, e la giustizia, che sono in Lei due virtù indivisibili e connaturali. Mi pare sentirmi dire da qualcheduno: Questa colleganza di pietà e di giustizia è il solito elogio che si dà a tutti quelli che hanno qualche pubblico impiego, come se uno potesse esser giusto senza esser pio, e potesse esser pio senza esser giusto. Io trovo la riflessione assai ragionevole; poiché la vera pietà, nell’animo di chi la esercita, non va mai disgiunta dalla giustizia, e la giustizia è un atto di pietà particolare, quando benefica, e un atto di pietà universale, quando castiga. Ma nel castigo ancora si può far uso della pietà particolare, quando, per esempio, un Giudice è fornito di quella bontà di cuore, che è naturale in V. E.

Poco ci vuole a consolare un afflitto, a confortare uno sfortunato. I rei talvolta tremano più alla vista di un Giudice aspro, inumano, che a quella della pena che han meritato. I condannati benedicono la dolcezza di chi li condanna, e gli assoluti si lamentano di chi li ha maltrattati. Quindi è, che nessuno è partito dal di Lei Tribunale malcontento, che i buoni hanno lodato la di Lei giustizia, ed i rei hanno confessata la di Lei pietà. Queste due virtù, che trionfano in un Magistrato, trovano luogo ancora da esercitarsi in particolare. La giustizia prende il nome di retto giudizio. di talento quadrato, di cognizione perfetta; e la pietà prende quello di affetto, di compassione, di attaccamento, di protezione. Parmi che Vostra Eccellenza abbia voluto usar meco abbondantemente di questi due attributi. Col primo ella mi ha amato e protetto; col secondo ella mi ha illuminato e corretto, e ne ho riportato da tutti e due onore e profitto.

Nel rinnovellare adunque l’edizione delle mie Opere, supplisco non solamente alla primiera intenzione, ma valgomi dell’occasione per supplicarla di continuarmi, lontano, quella bontà e quella protezione che si è degnata usarmi dappresso, e permettermi ch’io possa gloriarmi sempre di essere, quale con profondo ossequio mi dico

 

Di V. E.

 

Vostro Devotiss. Obbligatiss. Servitore

Carlo Goldoni

 

L’AUTORE A CHI LEGGE

Dopo aver io nella Commedia intitolata il Cavaliere e la Dama staffilati alcun poco i Legali di cattivo carattere in quel tale maligno ed avido Procuratore, era ben giusto che all’onoratissima mia professione dar procurassi quel risalto, che giustamente le si conviene.

È noto averla io in prima esercitata nella mia patria, seguendo lo stile del nostro Veneto Foro, indi nella città di Pisa, a quella pratica uniformandomi, onde informato egualmente dei due sistemi contrari, piacquemi di porli a fronte, e se parrà ch’io abbia esaltato il Veneto stile sopra quello che dicesi del Jus comune, e se nel rendere vincitore il mio Veneziano sarò imputato di parzialità ai miei colleghi e compatriotti, non è ch’io non apprezzi egualmente la pratica ed il sistema a noi straniero, ma sarò ben compatibile se in ciò facendo, avrò seguito il dettame della natura, ricordevole del primo latte da’ Veneti Maestri onorevolmente succhiato.

Allora quando comparve per la prima volta questa mia Commedia sulle scene di Venezia, ebbe ella per dir vero una fortuna assai grande, e pel numero delle recite, e per la folla del popolo, e per quello che di essa dicevasi da chi l’aveva veduta.

Fu principalmente aggradito il carattere nobile e virtuoso dell’Avvocato; il quale, inflessibile all’amore, all’interesse ed alle minacce, sa così bene trionfare delle passioni, e a tutto preferire l’onore di se medesimo e della sua professione; eppure (ridete, ch’ella è da ridere) fu criticato il mio Protagonista per questo appunto, perché in sommo grado onorato. Vi furono di quelli che non si vergognarono di dire, che in tai cimenti non fosse verisimile la resistenza. Questo è un negare la Virtù medesima, la qual allora fa di sé mostra, quando è più combattuta, né può risplendere fra le ordinarie e facili contingenze.

Sono smentiti i miei signori Critici da una serie numerosissima di Avvocati celebri per virtù e per dottrina, quali si riconoscono nell’onorato mio Alberto, e chi di tal carattere non sa persuadersi, mostra o di poco intenderlo, o di non essere ben disposto a imitarlo.

Il mio Avvocato non è che una copia dei buoni ed un ammaestramento ai cattivi. Chi lo somiglia, si consoli; chi va distante, arrossisca; chi non sa, impari; e chi sa, mi difenda.

Personaggi

Alberto Casaboni avvocato veneziano;

Il dottore Balanzoni avvocato bolognese;

Rosaura sua nipote;

Conte Ottavio;

Lelio amico d’Alberto;

Beatrice vedova, amica di Rosaura;

Florindo figlio del fu Anselmo Aretusi, cliente di Alberto;

Colombina serva di Beatrice;

Arlecchino servo di Beatrice;

Il Giudice;

Il Notaro;

Un Lettore che legge le Scritture presentate in causa, secondo lo stile veneto;

Un Messo della Curia, detto Comandador;

Un Servitor di Lelio;

Due Sollecitatori, che non parlano.

La Scena si rappresenta in Rovigo, città dello Stato Veneto.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera dell’avvocato in casa di Lelio, con tavolino, scritture,

calamaio ed una tabacchiera sul tavolino medesimo.

 

Alberto in veste da camera e parrucca, che sta al tavolino scrivendo,

e guardando libri e scritture; poi Lelio

ALB. Me par impossibile che el mio avversario voggia incontrar sto ponto[1]. La rason xe evidente, la disputa è chiara, e l’articolo xe dalla legge deciso.

LEL. Signor Alberto, che fate voi con tanto studiare? Prendete un poco di respiro; divertitevi un poco. Non vedete che il sol tramonta? Sono quattr’ore che siete al tavolino.

ALB. Caro amigo, se me volè ben, lasseme studiar; sta causa la me preme infinitamente.

LEL. Sono otto giorni che non si fa altro che parlare di questa causa. Un uomo del vostro sapere e del vostro spirito dovrebbe a quest’ora esserne pienamente in possesso.

ALB. (S’alza) Ve dirò, sior Lelio, le cause de conseguenza no le se studia mai abbastanza. Quando se tratta de un ponto de rason[2], bisogna sempre, per chiaro che el sia, dubitar dell’esito; bisogna preveder i obietti dell’avversario, armarse a difesa e a offesa; e un avvocato che ha per massima el ponto d’onor, no se contenta mai de se stesso; e veglia, e suda per assicurar l’interesse del so cliente, per metter l’animo in quiete, e per autenticar el zelo del proprio decoro.

LEL. Sono massime da par vostro, e non ho che dire in contrario. Solo bramerei che, dopo l’applicazione, mi donaste il contento di godere la vostra amenissima conversazione. So che siete ancor voi di buon gusto, e alle occasioni ho sperimentato in Venezia e sulla Brenta[3] la prontezza del vostro spirito, lepido, ameno e saviamente giocoso.

ALB. Sì, caro amigo; son anca mi omo de mondo; me piase l’allegria; co ghe son, ghe stago, e ai so tempi no me retiro. Ma adesso son a Rovigo per trattar una causa, e no per star in villeggiatura. Vu sè stà quello che per un atto de bona amicizia m’avè procurà sta causa; vu avè indotto e persuaso sior Florindo a valersene della mia debole attività in una causa de tanto rimarco, e lu, fidandose della vostra amicizia, non ostante che in sta città de Rovigo ghe sia soggetti degni e capaci, el m’ha fatto vegnir mi da Venezia a posta, e la so confidanza xe tutta riposta in mi. Xe necessario non solo che applica alla causa con assiduità, ma che me contegna in tel paese con serietà, per accreditar la mia persona nell’animo del giudice, che xe un capo essenzialissimo che onora l’avvocato e che favorisse el cliente.

LEL. Se io vi ho proposto al signor Florindo, ho preteso di usare un atto di buona amicizia con tutti due. Con voi, procurandovi quell’onesto profitto che meriteranno le vostre fatiche; con lui, ponendolo nelle mani di un avvocato dotto, onesto e sincero, come voi siete.

ALB. Dotto vorria esser; onesto e sincero me vanto d’esser.

LEL. Ma questa sera almeno non verrete per un poco alla conversazione?

ALB. Doman se tratta la causa; no credo de poder vegnir.

LEL. Sono in impegno di condurvi, e spero che non mi farete scomparire.

ALB. Ma dove? Da chi?

LEL. In casa della signora Beatrice, di quella vedova di cui vi ho parlato più volte. Ella tiene conversazione una volta la settimana; stassera ci aspetta, e vi supplico di venir meco.

ALB. Ma fin a che ora?

LEL. Vi starete fin che v’aggrada.

ALB. Fin do ore m’impegno, ma gnente de più.

LEL. Mi contento. Vi troverete una conversazione che forse non vi dispiacerà.

ALB. Trattada che abbia sta causa[4], se goderemo quattro zorni senza riserve.

LEL. Strepito grande fa questa causa in questo paese; non si parla d’altro.

ALB. Questo xe un maggior stimolo alla mia attenzion.

LEL. Ditemi, avete mai veduto la cliente avversaria?

ALB. L’ho vista diverse volte. Squasi ogni zorno la vedo al balcon. L’ho incontrada per strada. Un dì la s’ha fermà a discorrer col medico che giera in mia compagnia; l’ho considerada con qualche attenzion, e ho formà de ella un ottimo concetto.

LEL. Non è una bella ragazza?

ALB. Bella, da omo d’onor, bella d’una bellezza non ordinaria.

LEL. Vi piace dunque?

ALB. Le cose belle le piase a tutti.

LEL. Giuoco io, che più volentieri del signor Florindo, difendereste la signora Rosaura.

ALB. Ve dirò: rispetto al piaser de trattar el cliente, siguro che tratteria più volentiera siora Rosaura del sior Florindo; ma rispetto al merito della causa, defendo più volentiera chi ha più rason.

LEL. Povera giovane! Se perde questa causa, resta miserabile affatto.

ALB. Confesso el vero, che la me fa peccà[5]. La gh’ha un’idea cussì dolce, un viso cussì ben fatto, una maniera cussì gentil, un certo patetico missià con un poco de furbetto, che xe giusto quel carattere che me pol.

LEL. Volete vedere il suo ritratto?

ALB. Lo vederia volentiera.

LEL. Eccolo. Il pittore mio amico ne ha fatto uno per il conte Ottavio, che deve essere suo sposo; io ho desiderato d’averne una copia, ed egli mi ha compiaciuto. (gli fa vedere il ritratto in un picciolo rame)

ALB. L’è bello; el someggia assae; l’è ben desegnà; i colori no i pol esser più vivi. Vardè quei occhi; vardè quella bocca; el xe un ritratto che parla. Amigo, ve ne priveressi?

LEL. Se lo volete, siete padrone.

ALB. Me fe una finezza, che l’aggradisso infinitamente.

LEL. Ma parliamoci schietto. Non vorrei che foste innamorato della vostra avversaria.

ALB. La me piase, ma non son innamorà.

LEL. E avrete cuore di sostenere una causa contro una bella ragazza che vi piace?

ALB. Perché? Parleria anca contra de mi medesimo, quando lo richiedesse el ponto d’onor.

LEL. Badate bene.

ALB. Via, via, no me fe sto torto. No me credè capace de sacrificar el decoro alle frascherie.

LEL. E se la signora Rosaura sarà presente alla trattazion della causa, come anderà?

ALB. La varderò con tutta l’indifferenza. El calor della disputa non ammette distrazion. Co l’avvocato xe in renga[6], xe impiegà tutto l’omo. I occhi xe attenti a osservar i movimenti del giudice, per arguir dai segni esterni dove pende l’animo suo. Le recchie le sta in attenzion, per sentir se l’avversario brontola co se parla, per rilevar dove el fonda l’obietto e fortificar la disputa, dove la se pol preveder tolta de mira con mazor vigor. La mente tutta deve esser raccolta nella tessitura d’un bon discorso, che sia chiaro, breve e convincente, distribuido in tre essenzialissime parti: narrativa, che informa; rason, che prova; epilogo, che persuada. Le man e la vita, tutto deve esser in moto e in azion[7]; perché vestendose l’avvocato non solo della rason, ma della passion del cliente, tutto el se abbandona ai movimenti della natura, e la veemenza colla qual el parla, serve per maggiormente imprimer nell’animo de chi l’ascolta, e per mostrar coll’intrepidezza, col spirito e col vigor la sicurezza dell’animo preparà alla vittoria.

LEL. Non so come il Dottor Balanzoni, vostro avversario, intenderà questa maniera di disputare. Egli è bolognese, e voi veneziano; a Bologna si scrive, e non si parla.

ALB. Benissimo, lu el scriverà, e mi parlerò. Lu xe primo, e mi son segondo. Che el vegna colla so scrittura d’allegazion, studiada, revista e corretta quanto che el vol, mi ghe responderò all’improvviso. Maniera particolar de nualtri avvocati veneti, che imita el stil e el costume dei antichi oratori romani.

LEL. Veramente è una cosa maravigliosa e sorprendente sentir gli uomini parlare all’improvviso in una maniera sì forte e sì elegante, che meglio fare non si potrebbe scrivendo. E quelle lepidezze frammischiate con tanta grazia nelle cose più serie, senza punto pregiudicare alla gravità della disputa, non incantano, non innamorano?

ALB. Quando le xe nicchiade con artifizio, dite con naturalezza, senza offender la modestia o la carità, le xe tollerabili.

LEL. Certo è una cosa di cui tutti i forestieri ne parlano con ammirazione e con maraviglia.

ALB. Ma, caro amigo, troppo tempo m’avè fatto perder inutilmente. Ve prego, lasseme studiar.

LEL. Via, studiate, e poi anderemo dalla signora Beatrice. Poco manca alla sera.

ALB. Sta siora Beatrice la ve sta molto sul cuore.

LEL. È una donna tutta spirito.

ALB. No la staria ben con vu.

LEL. Perché?

ALB. Perché so che vu sè un omo tutto carne.

LEL. Bene, il di lei spirito correggeria la mia carne.

ALB. Se el spirito moderasse la carne, felice el mondo: el mal xe che la carne fa far a so modo el spirito.

LEL. Voi siete diventato molto morale. Da quando in qua vi siete dato allo spirito?

ALB. Dopo che la carne m’ha fatto mal.

LEL. Quando è così, vi compatisco. Vi lascio nella vostra libertà. Anderò a vedere come sta Flaminia mia sorella.

ALB. Reverila da parte mia. Diseghe che ghe auguro bona salute.

LEL. Lo farò senz’altro. A rivederci stassera. (parte)

SCENA SECONDA

Alberto solo.

ALB. Animo, a tavolin; fenimo de far el summario delle rason. Mo gran bel ritratto! Mo el gran bel visetto! No ho mai visto un viso omogeneo al mio cuor, come questo. No vorave che sto ritratto me devertisse dalla mia applicazion. Via, via, mettemolo qua in sta scatola, e no lo vardemo più. (pone il ritratto nella tabacchiera che sta sul tavolino) Co sarà fenia la causa, poderò divertirme col ritratto, e anca fursi coll’original. La sarave bella che fusse vegnù a Rovigo a vadagnar una causa, e a perder el cuor! Eh! che no voggio abbadar a ste ragazzade. Animo, animo, demoghe drento, e lavoremo. La donazion xe fatta in tempo de mancanza de fioli... (scrivendo)

SCENA TERZA

Un Servitore ed il suddetto, poi Florindo

SERV. Illustrissimo.

ALB. Cossa gh’è?

SERV. Il signor Florindo Aretusi.

ALB. Patron.

SERV. (Prego il cielo che guadagni questa causa, che anch’io avrò la mancia. Noi altri servitori degli avvocati facciamo più conto delle mance, che del salario). (da sé, parte)

ALB. L’ha fatto ben a vegnir. Daremo l’ultima pennelada al desegno della nostra causa.

FLOR. Servo, signor Alberto.

ALB. Servitor obbligatissimo. La se comoda.

FLOR. Eccomi a darle incomodo. (siede)

ALB. Anzi l’aspettava con ansietà. La favorissa; la vegna arente de mi. Incontreremo la fattura.

FLOR. Come vi aggrada. Avete saputo che il giudice non può domattina ascoltar la causa?

ALB. Stamattina sul tardi son stà a Palazzo, e avemo accordà col giudice e coll’avversario de trattarla dopo disnar. Questa xe la fattura; la favorissa de compagnarme coll’occhio, e suggerirme se avesse lassà qualcossa de essenzial nella narrativa dei fatti, nell’ordine dei tempi o nella citazion delle carte. El nobile signor Anselmo Aretusi, padre del nobile signor Florindo, s’ha maridà colla nobile signora Ortensia Rinzoni, nell’anno 1714. Fede de matrimonio, proc. A, a carte 1. Con dote de ducati cinquemille. Contratto nuzial con ricevuta, a carte 2.

Nell’anno 1724, el signor Anselmo Aretusi, non avendo figliuoli dopo dieci anni di matrimonio, ha preso per sua figlia adottiva, detta volgarmente fia d’anema, la signora Rosaura, figlia del signor Pellegrino Balanzoni mercante bolognese, negoziante in Rovigo. Attestato che giustifica, a carte 3.

Nel 1726 el detto signor Anselmo fa donazion de tutto el suo alla detta signora Rosaura. Contratto de donazion, a carte 4.

Nel 1728 dal detto signor Anselmo Aretusi e signora Ortensia Jugali nasce il nobile signor Florindo, loro figlio legittimo e naturale. Fede della nascita, a carte 7.

Nel 1744 passa da questa all’altra vita la signora Ortensia, moglie del signor Anselmo, e col suo testamento lassa erede della sua dote il signor Florindo suo figlio. Testamento in atti ecc., a carte 8.

Nel 1748, ai 24 d’Avril, mor senza testamento el nobile signor Anselmo Aretusi. Fede della morte, a carte 12.

Addì 8 Maggio susseguente, la signora Rosaura Balanzoni fa sentenziar a legge la donazion del fu Anselmo Aretusi, per l’effetto d’andar al possesso de tutti i beni liberi de rason del medesimo. Domanda avversaria, carte 13. Il nobile signor Florindo Aretusi, come figlio legittimo e naturale del suddetto signor Anselmo, si pone all’interdetto, domandando taggio della donazion. Domanda nostra, a carte 14.

Produzion avversaria d’un testamento del fu Agapito Aretusi, che istituisce un fideicommisso ascendente a favor della linea Aretusi, verificà in oggi nella persona del signor Florindo, a carte 15.

FLOR. Signor Alberto, io non capisco perché la parte avversaria abbia prodotto questo testamento, che sta a favor mio. Se un mio ascendente ha fatto un fideicommisso a mio favore, molto meno l’avversaria può pretendere nell’eredità di mio padre.

ALB. Mo ghe dirò mi, per cossa che i l’ha prodotto. Loro i domanda i beni liberi; e una rason de domandarli xe fondada sulla miseria della fiola adottiva, oltre el fondamento della donazion. I dise: nu domandemo i beni liberi; per el fio legittimo e natural ghe resta i fideicommissi, ghe resta la dote materna. Se lu perde, nol se reduse a pessima condizion; se perde la donna, la resta senza gnente a sto mondo.

FLOR. Che dite voi sopra di questo obbietto?

ALB. Questo xe un obietto previsto, arguido dalle carte avversarie: se i me lo farà in causa, ghe responderò per le rime. A ella intanto ghe digo, che sotto sto cielo la pietà pol moltissimo, ma quando no se tratta del pregiudizio del terzo. Dai tribunali se profonde le grazie, ma la giustizia va sempre avanti della compassion. E quel difensor che se fida della disputa patetica e commiserante, nol pol sperar gnente, se no l’è assistido dalla rason.

FLOR. E circa il merito della donazione, che ne dite?

ALB. Quel che sempre gh’ho dito. La sarà taggiada senz’altro.

FLOR. Dunque voi sostenete che un uomo non possa donare il suo?

ALB. Mi, la me perdona, no sostegno sta bestialità. L’omo pol donar, ma per donar a un terzo, nol pol privar i so fioi.

FLOR. Quando ha donato, non aveva figliuoli.

ALB. Giusto per questo, colla sopravenienza dei fioli, se rende nulla la donazion.

FLOR. Dunque sempre più vi confermate nella sicurezza che abbiamo ragione.

ALB. In quanto a mi, digo che della rason ghe ne avanza.

FLOR. Sentite: se guadagno la causa, ne avrò piacere, perché si tratta di ventimila ducati in circa; ma poi sarò anche contento per vedere umiliata quella superba di Rosaura, che pretendeva diventare contessa.

ALB. Poveretta! Ella no la ghe n’ha colpa.

FLOR. E quel bravo avvocato bolognese suo zio, che è venuto apposta da Bologna per trattar questa causa, si farà onore.

ALB. La senta. Tutti i avvocati i venze delle cause e i ghe ne perde; e ogni volta che se tratta una causa, uno ha da perder e l’altro ha da venzer; e pur tanto sarà dotto e onesto quel che venze, come quel che perde. Co se tratta de ponti de rason, ghe xe da discorrer per una parte e per l’altra. Delle volte se scovre e se rileva de quelle cosse che no s’ha capio, che no s’ha previsto. Bisogna star lontani dalle cause de manifesta ingiustizia, dai fatti falsi, dalle calunnie, dalle invenzion; da resto, co gh’ha logo l’opinion, chi studia, se sfadiga e s’inzegna, no gh’ha altro debito, e nissun xe responsabile della vittoria.

FLOR. Eppure gli avversari cantano già il trionfo. Quella impertinente di Rosaura mi ha detto ieri sera un non so che di voi, che mi ha acceso di collera.

ALB. De mi? Cossa gh’ala dito, cara ella?

FLOR. Non ve lo voglio dire.

ALB. Eh via, la me lo diga; za mi ghe prometto recever tutto con indifferenza.

FLOR. Sentite che bella maniera di parlare. Signor Florindo, mi disse, avete fatto venire un avvocato da Venezia per trattare la vostra causa. L’avete scelto molto bello; era meglio che lo sceglieste bravo. Impertinente! Vedrai chi è il signor Alberto Casaboni!

ALB. L’ha dito che l’ha scielto un avvocato bello? (con bocca ridente)

FLOR. Sì, e non bravo. Non vi conosce ancora colei.

ALB. Certo che, se la me cognossesse, no l’averave dito sta bestialità che son bello.

FLOR. L’avete mai veduta Rosaura?

ALB. L’ho vista al balcon.

FLOR. Dicono che sia bella. A me non piace per niente. Voi che ne die?

ALB. Lassemo andar ste freddure, e tendemo a quel che importa. La me lassa fenir sto sumarietto delle rason, e po son con ella. (si mette a scrivere)

FLOR. Fate pure. Mi date licenza che prenda una presa del vostro tabacco?

ALB. La se serva. (scrivendo, senza guardar Florindo)

FLOR. (Prende la scatola ov’è il ritratto di Rosaura, l’apre, lo vede, e s’alza) (Come, che vedo! Il signor Alberto ha il ritratto di Rosaura? Sarebbe mai di essa invaghito? Poco fa, quando la trattai da superba, mostrò di compassionarla; gli domandai se l’aveva veduta, non mi ha detto d’avere il suo ritratto. Gli ho chiesto se gli par bella, ed egli ha mutato discorso. Ciò mi mette in gran sospetto; non vorrei ch’egli mi tradisse. No, un uomo onorato non è capace di tradire; ma chi m’assicura che il signor Alberto sia tale? Non lo conosco che per relazione dell’amico Lelio. Oimè, in qual confusione mi trovo! Domani s’ha da trattar la causa; se la lascio correre, son pieno di sospetti; se la sospendo, mi carico di spese, di dispiaceri, d’incomodi. Io non so che risolvere). (da sé)

ALB. Ho fenio tutto. (s’alza)

FLOR. Gran buon tabacco avete, signor Alberto!

ALB. De qualo ala tolto? El rapè lo gh’ho in scarsella.

FLOR. Ho preso di questo, il quale, invece di darmi piacere, mi ha offeso gli occhi non poco.

ALB. El sarà de quel suttilo, de quel che fa pianzer.

FLOR. Sì questo è un tabacco che può far piangere, e mi maraviglio che voi lo tenghiate sul tavolino.

ALB. Lo tengo per divertirme dall’applicazion, el me serve per scaricar.

FLOR. Badate che non vi carichi troppo.

ALB. Gnente affatto, la lassa veder... (Oimè, cossa vedio? El ritratto de siora Rosaura?) (da sé)

FLOR. Signor Alberto, questo è il ritratto della mia avversaria!

ALB. Sior sì, el xe el ritratto de siora Rosaura.

FLOR. Chi custodisce il ritratto, mostra d’amare l’originale.

ALB. La me perdona, la dise mal. Mi me diletto de miniature; se la vegnirà a Venezia, la vederà in casa mia una piccola galleria de ritratti: tutti de zente che no cognosso, de donne che no so chi le sia. E questo l’anderà coi altri alla medesima condizion.

FLOR. Vi pare questo un ritratto da galleria?

ALB. El g’ha el so merito; l’è ben desegnà. La carnagion no pol esser più natural. El panneggiamento xe molto vivo. La varda quelle pieghe. La varda come ben atteggiada quella testa e quella man. In quei quattro tocchi de chiaroscuro, che forma una spezie d’architettura in piccolo, se ghe vede el maestro. El xe un bel ritratto. Sior Lelio lo gh’aveva, l’ho visto, el m’ha piasso, el me l’ha donà, e el servirà per cresser el numero dei mi ritratti.

FLOR. Amico, parliamoci con libertà. Anch’io son uomo di mondo, e so benissimo che si danno di quegli assalti da’ quali l’uomo più saggio non si sa difendere. Se il volto della signora Rosaura avesse fatto qualche impressione nel vostro cuore, malgrado ancora della vostra virtù, vi compatirei infinitamente, perché la nostra miserabile umanità per lo più è soggetta a soccombere. Solo vi pregherei a confidarmelo, a svelarmi colla vostra bella sincerità quest’arcano, e vi prometto da uomo d’onore, che se vi sentite qualche ripugnanza nel difendermi contro Rosaura, vi lascierò nella vostra pienissima libertà, vi dispenserò dall’impegno in cui siete, e se non credessi di offendere la vostra delicatezza, vi esibirei tutto il prezzo delle vostre fatiche, e di più ancora, per animarvi a confidarmi la verità.

ALB. Sior Florindo, v’ho lassà dir, v’ho lassà sfogar senza interromper, senza defenderme; adesso che avè fenio, brevemente parlerò mi. Che la nostra umanità sia fragile, no lo nego; che un omo savio e prudente se possa innamorar, ve l’accordo; ma che un omo d’onor se lassa portar via da una cieca passion, col pregiudizio del so decoro, della so estimazion, l’è difficile più de quel che credè; e se in tal materia ghe xe stà e ghe xe dei cattivi esempi, Alberto no xe capace de seguitarli. El dubitar che vu fe della mia onestà, della mia fede, xe per mi una gravissima offesa; ma no son in grado de resentirmene, perché el mio resentimento in sto caso el poderia autenticar le vostre parole. Son qua per defender la vostra causa, son qua per trattarla. La tratterò per l’impegno d’onor, più che per quel vil interesse che malamente e fora de tempo avè avudo ardir d’offerirme. Vederè con che calor, con che cuor, con che animo sostenirò la vostra difesa. Conosserè allora chi son, ve pentirè d’averme offeso con un indegno sospetto, e imparerè a pensar meggio dei omeni onesti, dei avvocati onorati. (parte)

FLOR. Il signor Alberto si scalda molto, ma ha ragione; un uomo di delicata reputazione non può soffirire un’ombra che lo pregiudichi. Io mi sono lasciato trasportare un poco troppo dalla passione. Ma diamine! Gli vedo il ritratto di Rosaura sul tavolino, e non ho da sospettare? Il sospetto è molto ben fondato. E tutto quel caldo del signor Alberto non potrebbe essere prodotto dal dispiacere di vedersi scoperto? No, non mi voglio inquietare. Domani si tratterà la causa, e sarà finita. E se la causa si perde? E se la causa si perde, niuno mi leverà dal capo che l’avvocato non mi abbia tradito, per favorire le bellezze dell’avversaria. (parte)

SCENA QUARTA

Camera di conversazione in casa di Beatrice, con tavolini da giuoco, sedie, lumi e carte: le quali cose, mal disposte, vengono poste in ordine da Colombina e Arlecchino.

 

Colombina e Arlecchino

COL. Animo, spicciamoci; s’appressa l’ora della conversazione.

ARL. A mi no m’importa de l’ora della conversazion, me preme quella della cena.

COL. Tu non pensi che a mangiare, ed a me tocca quasi sempre far quello che dovresti far tu.

ARL. Cara Colombina, son omo da poderte refar; se ti ti te sfadighi la mia parte, mi magnerò la toa.

COL. Orsù, ora non è tempo di barzellette. Bisogna mettere in ordine questi tavolini e queste sedie, e preparare le carte, perché, come sai, questa sera vi sarà conversazione.

ARL. Alla conversazion cossa fai delle carte?

COL. Oh bella! giuocano, e giuocano di grosso. Sono tutti amici quelli che vengono in questa casa, ma vorrebbero potersi spogliare l’uno con l’altro.

ARL. La saria bella che i spoiasse la padrona, e che la restasse in camisa.

COL. Oh, non vi è pericolo; la padrona non perde mai. O per fortuna, o per convenienza, o per complimento, se vince, tira, se perde, non paga.

ARL. In sta maniera vorria zogar anca mi.

COL. Ma questo privilegio è solo per le donne. Gli uomini perdono a rotta di collo. Ne ho veduti parecchi in questa casa rovinarsi. Vengono a conversazione, e vi trovano la malora; vengono allegri, e partono disperati.

ARL. Ho sentì anca mi qualche volta a bestemmiar...

COL. Ecco la padrona. Presto le sedie. (s’affrettano nell’accomodar quanto occorre)

SCENA QUINTA

Beatrice e detti.

BEAT. E quando la finirete? Tanto vi vuole ad accomodare quattro sedie?

ARL. Colombina no la fenisse mai.

COL. Se non fossi io! Costui non è buono a nulla. Questa sedia qui. (regolando una sedia posta da Arlecchino)

ARL. Siora no, la va qua. (la scompone)

COL. Non va bene. La voglio qui. (la rimette dove era)

ARL. Ti è un’ignorante.

COL. Sei un asino.

ARL. Son el diavolo che te porta. (getta con rabbia la sedia in terra)

COL. A me quest’affronto? (ne getta una verso Arlecchino)

BEAT. Siete pazzi?

ARL. Maledettissima. (getta in terra un’altra sedia)

BEAT. A chi dico? Temerari, così mi ubbidite? Vi caccerò entrambi di casa.

COL. Con colui non si può vivere. (rimette una sedia)

ARL. Culia l’è insatanassada. (rimette un’altra sedia)

COL. Se non fossi io! (vuol rimettere la terza sedia)

ARL. Lassa star, che tocca a mi.

COL. Tocca a me.

ARL. Tocca a mi. (si sente picchiare)

BEAT. Picchiano.

COL. Vado io.

ARL. Tocca a mi.

COL. Tocca a me. (partono tutti due e lasciano la sedia in terra)

BEAT. Tocca a mi, tocca a me, e la sedia non si è levata. Gran pazienza vi vuole con costoro. L’ora s’avanza, e la conversazione questa sera ritarda. Se non giuoco, sto in pene; gran bel divertimento è il giuocare.

SCENA SESTA

Rosaura, il dottor Balanzoni e detta.

BEAT. Ben venuta la signora Rosaura.

ROS. Ben trovata la signora Beatrice.

BEAT. Serva divotissima, signor Dottore.

DOTT. Le faccio umilissima riverenza.

ROS. Sono venuta a ricevere le vostre grazie.

BEAT. Mi avete fatto un onor singolare. Spero avremo una buona conversazione. Favorite; accomodatevi. Signor Dottore, s’accomodi. (Rosaura siede)

DOTT. Se la mi dà licenza, bisogna ch’io vada per un affare indispensabile. Ho accompagnata mia nipote, per altro io non posso restare a godere delle sue grazie.

BEAT. Mi dispiace infinitamente. Ma quando si è spicciato, torni, non ci privi della sua conversazione.

DOTT. Tornerò più presto ch’io potrò. La ringrazio della bontà ch’ella dimostra per un suo buon servitore.

BEAT. Anzi mio padrone. Dica, signor Dottore, speriamo bene circa la causa della signora Rosaura?

DOTT. Spererei che dovesse andar bene.

BEAT. La di lei virtù può tutto promettere.

DOTT. Farò certamente tutto quello che io potrò.

BEAT. E poi l’amore che ella ha per la nipote, maggiormente l’impegnerà a porvi tutto lo studio.

DOTT. È verissimo, l’amo teneramente. Ella è figlia d’un mio fratello. Sono venuto a posta da Bologna, ed ho abbandonato i miei interessi, con tanto pregiudizio del mio studio, per venire ad assistere questa buona ragazza.

BEAT. Veramente la signora Rosaura lo merita.

DOTT. Orsù, signora Beatrice, a rivederla e riverirla.

BEAT. Serva sua.

ROS. Torni presto, signor zio.

DOTT. Sì, tornerò presto; vado ad operare per voi; vado a portare al giudice la mia scrittura d’allegazione. Voglio dare una toccatina sul punto della donazione, per sentire come egli la intende; per poter questa notte trovar dell’altre ragioni, dell’altre dottrine, se non bastassero quelle che ho ritrovate sinora. Perché sogliamo dire noi altri dottori: Multa collecta probant, quae singulatim non probant. (parte)

SCENA SETTIMA

Beatrice, Rosaura, poi Colombina

BEAT. Con me poteva risparmiare il latino.

ROS. Eh! signora Beatrice, mio zio spera molto, ma io spero pochissimo.

BEAT. Perché?

ROS. Perché con quanti parlo di questa causa, tutti mi dicono che vi è da temere.

BEAT. Temere si deve sempre. Ma si deve anco sperare. Vostro zio sa quel che dice: è un uomo di garbo.

ROS. Sì, è vero, mio zio sa qualche cosa, ma non è pratico dello stile di questi paesi. Egli l’ha con queste sue allegazioni, con queste sue informazioni; ed io so che il giudice non l’ha voluto e non lo vuole ascoltare, ma gli ha fatto dire che le sue ragioni le sentirà in contradditorio, il giorno della trattazione della causa.

BEAT. Domani farà spiccare la sua virtù.

ROS. Il signor Florindo si è provveduto d’uno de’ migliori avvocati di Venezia, ed è questo quello che mi fa più paura.

BEAT. Mi vien detto che questo signor avvocato, oltre l’essere eccellente nella sua professione, sia poi un uomo pieno di buone maniere e di una amenissima conversazione.

ROS. Aggiungete un uomo ben fatto, con una idea che colpisce e con una grazia che incanta.

BEAT. L’avete veduto?

ROS. Sì, l’ho veduto.

BEAT. È un bell’uomo dunque?

ROS. Di bellezze non me n’intendo; ma se l’avessi a giudicar io, lo preferirei ad ogni altro.

BEAT. Gli avete mai parlato?

ROS. Una volta. Era egli col medico. Io, che desiderava l’occasione di sentirlo discorrere, mi fermai colla serva a chiedere al medico, s’era tempo di principiare la purga. Quel graziosissimo veneziano entrò pulitamente nel proposito della purga, e mi ha dette le più belle e frizzanti cose del mondo. Cara amica confesso il vero, da quel giorno in qua penso più all’avvocato avversario, di quel ch’io pensi alla mia propria causa.

BEAT. Questa è un’avventura bellissima. Se si potesse credere che egli avesse della stima per voi, potreste molto compromettervi nel caso in cui siete.

ROS. Dopo di quell’incontro, mi ha salutato con un poco più di attenzione, e spero non essergli indifferente. Ciò non ostante, credetemi, niente spero.

BEAT. A buon conto, stassera verrà qui alla conversazione.

ROS. Davvero?

BEAT. Senz’altro.

ROS. Oh, meschina me!

BEAT. Dovreste anzi averne piacere.

ROS. Mi si gela il sangue solamente a pensarvi.

BEAT. Più bella occasione di questa non potete avere.

ROS. Per amor del cielo, non mi fate fare una cattiva figura.

BEAT. Non sono già una ragazza. Ho avuto marito e so il viver del mondo. Sapete che vi ho sempre voluto bene, e desidero vedervi quieta e contenta.

ROS. Cara amica, quanto vi son tenuta!

COL. Signora padrona, è qui il signor conte Ottavio che vorrebbe riverirla.

BEAT. Venga pure, è padrone.

COL. (Se alla conversazione non viene di meglio, questo signor Conte ne ha pochi da perdere). (da sé, parte)

ROS. Quanto m’annoia questo signor Conte!

BEAT. V’annoia? Non ha egli da essere vostro sposo?

ROS. Sì, il mio signor zio mi ha fatto questo bel servizio. Mi ha fatto promettere ad uno, per cui non ho né inclinazione, né amore.

BEAT. Ma perché l’avete fatto?

ROS. Per necessità. Mio zio è l’unica persona ch’io abbia al mondo da potermi fidare; egli mi minacciava di abbandonarmi, se non lo faceva.

BEAT. E il Conte vi vuol bene?

ROS. Mi fa qualche finezza, ma non mostra gran passione. Io credo che egli faccia l’amore ai ventimila ducati della mia eredità.

BEAT. Dicono che sia nobile, ma di poche fortune.

ROS. E quel che è peggio, dicono sia un uomo che vive di prepotenza.

BEAT. Siete ben pazza, se lo prendete.

ROS. Ma come ho da fare?

BEAT. Io, io vi insegnerò il modo di liberarvene; ma eccolo.

ROS. Guardate, se con quella cera brusca non fa paura.

SCENA OTTAVA

Il conte Ottavio, le suddette, poi Colombina

CON. Servitore umilissimo di lor signore. (le donne s’alzano)

BEAT. Serva, signor Conte.

CON. Signora Rosaura, ho riverito ancor lei.

ROS. Ed io lei.

CON. Non ho sentito che mi favorisca.

ROS. Questa sera avrà ingrossato l’udito.

CON. O io ho ingrossato l’udito, o ella ha assottigliata la voce.

ROS. (Che bella grazietta!) (piano a Beatrice)

BEAT. (È un umore curioso).

CON. Come sta, signora Beatrice? Sta bene?

BEAT. Benissimo, per servirla.

CON. E ella che ha, che mi pare accigliata? (a Rosaura)

ROS. Che vuol che io abbia? Penso alla mia causa.

CON. Per dirla, questa vostra causa credo voglia andar molto male.

BEAT. Perché, signor Conte? Il signor Dottore, zio della signora Rosaura, spera bene.

CON. Che cosa sa quell’animale di quel Dottore?

ROS. Signor Conte, parli con rispetto del mio zio.

CON. Faccio umilissima riverenza al signor zio; ma vi dico che, se baderete a lui, perderete la causa e resterete una miserabile.

ROS. Perché dite questo?

CON. Basta; questa causa la finirò io. È venuto questo signor veneziano; ha messo tutti in soggezione, fa tremar tutti, vuol vincer tutti, vuol portar via la causa, vuole abbattere gli avversari, vuol conquassare il paese; ma niente, con due delle mie parole m’impegno che domattina se ne torna per le poste a Venezia.

ROS. E poi?

CON. E poi la causa sarà finita.

ROS. Non vi saranno altri difensori del signor Florindo?

CON. Chi avrà ardire d’intraprendere questa causa, l’avrà da fare con me.

ROS. Signor Conte, in questi paesi non si usano prepotenze.

CON. Che cosa sono queste prepotenze? Io non fo prepotenze. Mi faccio giustizia da me medesimo, per risparmiar le spese de’ tribunali.

COL. Signora, è qui il signor Lelio col signore avvocato veneziano.

BEAT. Oh! bravissimi. Ho piacere. Di’ loro che passino.

COL. (È tutta contenta. Il veneziano dovrebbe essere un buon pollastro per dargli una pelatina col giuoco). (da sé, parte)

BEAT. Caro signor Conte, vi prego, in casa mia non promovete discorsi che abbiano a disturbare la conversazione.

CON. Sì, signora, sarà servita.

ROS. (Tremo da capo a piè). (piano a Beatrice)

BEAT. (Perché?) (piano a Rosaura)

ROS. (Non lo so nemmen io).

SCENA NONA

Alberto, vestito con abito di gala, Lelio e detti. S’incontrano, si salutano con reciproche riverenze e qualche parola di rispetto, poi come segue.

ALB. La perdoni, zentildonna[8], l’ardir che me son preso de vegnirghe a dar el presente incomodo, animà dal sior Lelio, che m’ha assicurà della so bontà e della so gentilezza.

BEAT. Il signor Lelio mi ha fatto un onor singolare, dandomi il vantaggio di conoscere un soggetto di tanto merito.

ALB. La supplico sospender, riguardo a mi, la troppo favorevole prevenzion, perché, savendo de no meritarla, la me serviria de rossor.

BEAT. La di lei modestia non fa che accrescere il pregio della di lei virtù.

ALB. Taserò, no perché me lusinga de meritar le sue lodi, ma per assicurarla del mio rispetto.

BEAT. La prego di accomodarsi.

ALB. Per amor del cielo, signori, le supplico; no le stia in disagio per mi.

(Tutti siedono. Alberto vicino a Beatrice, Lelio vicino ad Alberto; dall’altra parte Rosaura, e presso Rosaura il Conte)

LEL. (Che ne dite? È una bella conversazione?) (piano ad Alberto)

ALB. (Amigo, me l’avè fatta. Se credeva che ghe fusse siora Rosaura, no ghe vegniva) (piano a Lelio)

LEL. (Miratela con quell’indifferenza con cui la mirereste davanti al giudice).

ALB. (Altro xe el tribunal, altro xe la conversazion).

BEAT. (Amica, che avete che mi parete sorpresa?) (a Rosaura)

ROS. (Pagherei una libbra di sangue a non esser qui).

CON. Signora Rosaura, qualche volta favorisca ancor me. Io non son qui per far numero.

ROS. Che mi comanda, signor Conte? Vuol che gli canti una canzonetta?

CON. (Impertinente! Quando sarai mia moglie, le sconterai tutte). (da sé)

ALB. (Chi elo quel signor?) (a Lelio)

LEL. (È il conte Ottavio, quello che deve esser sposo della signora Rosaura). (ad Alberto)

ALB. (Caro amigo, non me dovevi mai menar qua).

LEL. (Se mi parlavate chiaro, non vi conduceva).

BEAT. Signor Lelio, come sta la signora Flaminia vostra sorella?

LEL. Sta un poco meglio. Il sangue le ha fatto bene.

BEAT. Domattina voglio venire a vederla.

LEL. Le farete una finezza particolare.

BEAT. (Volete venire ancora voi?) (piano a Rosaura)

ROS. (Dove abita il signor Alberto?) (piano a Beatrice)

BEAT. (Sì).

ROS. (Oh dio! non so).

BEAT. Signor avvocato.

ALB. La comandi.

BEAT. Conosce questa signora?

ALB. Me par de averla vista e reverida qualche volta, ma non ho l’onor de conosserla precisamente.

BEAT. Questa è la signora Rosaura Balanzoni, di lei avversaria.

ALB. (S’alza) Cara zentildonna, me rincresce infinitamente trovarme in necessità de doverghe esser avversario; ma la se consola, che avendome avversario mi, el xe un capo d’avvantaggio per ella, perché la mia insufficienza darà mazor risalto al merito delle so rason.

ROS. La ringrazio infinitamente per sì gentile espressione, ma il mio scarso merito e la mia causa disavvantaggiosa non meritavano un difensore sì degno. (Non so quel ch’io mi dica). (da sé)

ALB. (La m’ha coppà). (a Lelio, e siede)

BEAT. Domani dunque si tratterà questa causa?

ALB. La corre per doman.

BEAT. Sarebbe una temerità il chiedergli come l’intenda.

ALB. Se no l’intendesse a favor del mio cliente, certo che no m’esponerave a trattarla.

BEAT. Dunque la signora Rosaura sta male.

ALB. La signora Rosaura no pol star mal.

BEAT. Se perde l’eredità di Anselmo Aretusi, che le rimane?

ALB. Ghe resta un capital de merito, che no xe soggetto né a dispute, né a giudizi.

ROS. Il signor avvocato mi burla. (con tenerezza)

ALB. Non son cussì temerario.

ROS. (Beatrice, non posso più).

BEAT. (Pazienza, pazienza, che anderà bene).

CON. (Questa cara Rosaura mi pare che guardi con troppa attenzione il signor veneziano. La finirò io). (da sé) Signor avvocato.

ALB. Patron mio reverito.

CON. Una parola in grazia. (lo chiama a sé)

ALB. (De che paese xelo quel sior?) (a Lelio)

LEL. (Credo sia romagnolo). (ad Alberto)

ALB. (El gh’ha del polledrin della Marca).

CON. Favorisce?

ALB. Son da ella. (Mel voggio goder sto sior romagnolo). (s’alza e gli va vicino)

ROS. (Che manieracce ha il Conte!) (da sé)

ALB. (Cossa comandela, mio patron?)

CON. (A che ora vi levate la mattina?)

ALB. (Segondo: ma per el più a terza son sempre in piè).

CON. (Domattina, subito che siete alzato venite al caffè, che vi ho da parlare. Ma venite solo, e con segretezza).

ALB. (Veramente domattina gh’ho un pochetto d’affar. No la poderia mo ella favorir a casa?)

CON. (No, non posso. L’affare è geloso. Venite che vi tornerà conto).

ALB. (Se l’è per qualche causa, la sappia che vago via e no me posso impegnar).

CON. (Non è causa; è un affare che deve premere più a voi che a me).

ALB. (Basta, vederò de vegnir).

CON. (Del vederò non mi contento. Mi avete da dar parola di venire).

ALB. (Ghe dago parola, e vegnirò).

CON. (Non occorr’altro).

ALB. (L’è el più bel matto del mondo. Se posso, domattina vôi devertirme una mezz’oretta). (da sé, e torna al suo posto)

BEAT. Signor Alberto, si diletta di giuocare?

ALB. Qualche volta, co gh’ho tempo. Però per divertimento, no mai per vizio.

BEAT. Se si vuole divertire, ci farà grazia.

ALB. Per obbedirla farò tutto quello che la comanda. Ma sa sior Lelio che a do ore bisogna che me retira.

ROS. Il signor Alberto ha da ritirarsi per pensare contro di me.

ALB. La me mortifica con rason, ma ghe protesto che sempre no penso contro de ella.

ROS. Può darsi; ma in mio favore no certamente.

ALB. A che zogo comandele che le serva? (dopo aver guardato Rosaura pateticamente)

ROS. (Sentite come muta discorso a tempo?) (piano a Beatrice)

CON. Signora Rosaura, col suo bello spirito proponga ella il giuoco che s’ha da fare.

ROS. Anzi ella, che è tanto gentile nelle conversazioni.

CON. (Fraschetta! se non fossero ventimila scudi, non la guarderei). (da sé)

LEL. (Quei due sposi non si possono vedere). (piano ad Alberto)

ALB. (A lu par che la ghe inzenda, e per mi la saria tanto zuccaro). (da sé)

BEAT. Siamo in cinque, a che giuoco possiamo giuocare?

CON. Se giuochiamo a tresette, colla signora Rosaura non ci voglio stare.

BEAT. Perché?

CON. Perché non sa tenere le carte in mano.

ROS. Obbligata alle sue finezze.

CON. Io parlo schietto. Facciamo così: io e la signora Beatrice.

ALB. (Prima io). (da sé)

CON. L’avvocato con Lelio.

ALB. (El parla con un imperio, che el par Kulikan). (da sé)

BEAT. E la signora Rosaura non ha da giuocare?

CON. Se non ne sa.

ROS. Sentite, io non so giuocare, ma voi sapete poco il trattare. (al Conte)

CON. Verrò a scuola da lei.

ALB. La lassa che la zoga, che mi, se la se contenta, l’assisterò.

ROS. Voi non dovete assistere la vostra avversaria.

ALB. Mo no la me mortifica più. L’abbia un poco de compassion.

ROS. Non posso aver compassione per voi, se voi non l’avete per me.

ALB. (Sia maladetto quando son vegnù qua!) (da sé, smanioso)

LEL. (L’amico è agitato. Mi dispiace esserne io la cagione). (da sé)

BEAT. Orsù, per giuocare tutti, giuochiamo alla bassetta. Il signor Alberto ci favorirà di fare un piccolo banco.

ALB. Volentiera; la servirò come la comanda.

BEAT. Chi è di là? (vengono servitori) Tirate avanti quel tavolino ed accostate le sedie. (i servitori eseguiscono) Portate due mazzi di carte buone ed un mazzo delle vecchie. Sediamo. Qua il signor Alberto. Qua la signora Rosaura e qua io. Là il signor Lelio.

CON. E qua io? (vicino a Rosaura)

BEAT. Là, se vuole.

CON. Perderò senz’altro.

BEAT. Perché?

CON. Perché, quando giuoco, le donne vicine mi fanno cattivo augurio.

ROS. E voi andate dall’altra parte: chi vi tiene?

CON. Oh! voglio stare presso la mia carissima signora sposa. (con ironia)

ROS. (Mi fa venire il vomito). (da sé)

CON. (Non la posso vedere). (da sé)

ALB. Eccole servide d’un poco de monede. Le se devertissa.

CON. Che banco è quello? Credete di giuocar colla serva?

ALB. Quaranta o cinquanta lire de banco, per un piccolo divertimento, me par che non sia inconveniente.

CON. Se non vi è oro, non metto.

ALB. Ben, per servirla, metterò dell’oro. (cava una borsa e pone dell’oro in banco)

BEAT. Eh! non vogliamo...

CON. Lasci fare. Oh! questa è bella. Vogliamo giuocare come vogliamo noi.

BEAT. (È pieno di buone maniere questo signor Conte). (da sé)

ALB. Questi xe trenta zecchini: ghe basteli?

CON. Fate buono sulla parola?

ALB. La venza questi, e ghe penseremo. (Son in te l’impegno, bisogna starghe). (da sé)

LEL. (Mi dispiace averlo condotto qui). (da sé)

ALB. Ho taggià, le metta.

BEAT. Asso, un filippo; metta, metta, signor Lelio.

LEL. Due, a tre lire.

CON. Fante, a un zecchino.

BEAT. Via, Rosaura, mettete ancor voi.

ROS. No, perderei certamente.

BEAT. Perché dite che perdereste?

ROS. Perché il signor avvocato è venuto a Rovigo per farmi perdere.

ALB. Pazienza! La me tormenta, che la gh’ha rason.

ROS. Io vi tormento da scherzo e voi mi tormentate da vero.

CON. Animo, si giuoca o non si giuoca?

ALB. Son qua subito. Asso, do e fante. (taglia) Fante ha vadagnà, ecco un zecchin. Do ha vadagnà, ecco tre lire. Asso vadagna, ecco un felippo.

CON. Mescolate le carte.

ALB. Come la comanda. (mescola le carte)

CON. Lasciate vedere, le voglio mescolare anch’io.

ALB. Patron, la se comoda. (Bisogna ch’el sia avvezzo a zogar con dei farabutti). (a Beatrice)

BEAT. (È un conte che conta poco). (ad Alberto)

ALB. (Elo conte, contin o contadin?)

CON. Tenete. Fante, a due zecchini. (dà le carte ad Alberto)

BEAT. Asso, a due filippi.

LEL. Due, a cinque lire.

ALB. E ella no la mette? (a Rosaura)

ROS. Io non giuoco con chi sa perdere e vincere quando vuole.

BEAT. Eh via, mettete.

ROS. Quattro, a due lire.

ALB. No la cresce la posta?

ROS. Non posso giuocar di più.

ALB. Perché?

ROS. Perché domani in grazia vostra sarò miserabile.

CON. Oh, che giuocare arrabbiato! Non la finisce mai. (Alberto taglia)

ALB. Subito. Fante ha perso. Con so bona grazia. (tira i due zecchini)

CON. Maledetta mano; non dà una seconda.

ALB. El gh’ha rason. Xe quattro o cinque ore che zoghemo. (con ironia)

CON. Va fante.

ALB. No va altro, no va altro. Do, tiro. (tira le cinque lire di Lelio)

BEAT. Questa volta tirate tutto.

ALB. Magari che tirasse tutto! (guardando Rosaura)

ROS. Che cosa guadagnereste di buono?

ALB. Vadagnerave el ponto, e chi lo mette.

ROS. Il punto val poco, e chi lo mette val meno.

ALB. Chi lo mette, val un tesoro.

ROS. Se fosse vero, non le sareste nemico.

ALB. Oh, me xe cascà le carte. Ho perso, bisogna che paga. Ecco do felippi e do lire. (si lascia cader le carte di mano, e paga le due donne)

BEAT. Siete un tagliatore adorabile.

ROS. Questa sera tagliate in mio favore, e domani taglierete contro di me.

ALB. S’ala gnancora sfogà?

ROS. Stassera mi sfogo io, e domani vi sfogherete voi.

ALB. (Debotto non posso più resister). (da sé, smanioso)

CON. E così, che facciamo? Ho da perdere il mio denaro con questo bel gusto?

ALB. Se no la vol zogar, nissun la sforza.

CON. Voglio giuocare. Animo, presto. Fante, a un zecchino.

ALB. Vorla missiar?

CON. Se volessi mescolare, mescolerei; tagliate.

ALB. Ella xe tutto furia, e mi tutto flemma. Via, zentildonne, che le metta.

BEAT. Che cosa abbiamo da mettere?

ALB. Che le metta al banco.

BEAT. L’oro mi fa paura.

ALB. Tirerò via l’oro. Lasso sto zecchin per el sior Conte.

BEAT. Asso al banco. (Alberto taglia)

ALB. Fante: ho venzo mi. Sto zecchin farà compagnia a st’altro. Mettemoli qua, sotto sto candelier. (pone li due zecchini sotto al candeliere) Asso ha vadagnà, son sbancà, no se zoga più. (Beatrice tira il banco)

CON. I miei due zecchini?

ALB. Me despiase, ma mi no taggio altro.

CON. Bell’azione!

BEAT. Via, via, signor Conte, un poco di convenienza.

CON. (Si scalda, perché va bene per lei). (da sé)

LEL. (È un giovane generoso e civile). (da sé)

ALB. Cossa disela, siora Rosaura? Siora Beatrice m’ha sbancà.

ROS. E voi domani sbancherete me.

ALB. (No la me lassa star un momento). (da sé)

SCENA DECIMA

Florindo e detti.

FLOR. Servitor umilissimo a lor signori. (tutti lo salutano) (Il signor Alberto vicino a Rosaura? Cresce il mio sospetto). (da sé)

BEAT. Molto tardi, signor Florindo!

FLOR. Mah, chi ha degli interessi, non può prendersi molto divertimento.

BEAT. Il signor Alberto ci ha favorito.

FLOR. Il signor Alberto può farlo, perché non ci pensa come ci penso io.

ALB. Signor Florindo, ella in pubblico pretende mortificarme, e mi in pubblico bisogna che me defenda. La dise che mi no penso ai so interessi, come la pensa ella; e mi ghe digo che ghe penso assae più de ella, perché un’ora che mi ghe pensa, val più del so pensar d’una settimana. Ghe ne xe molti de sti clienti, che pretende che l’avvocato non abbia da pensar altro che alla so causa. I crede che l’intelletto dell’omo sia limità a segno che nol possa pensar che a una cossa sola. E siccome la so passion no fa che tegnirli oppressi e vincoladi tra la speranza e el timor, i vorria che l’avvocato no fasse mai altro che consolarli. Nualtri che avemo una moltitudine de affari sul tavolin, bisogna che a tutti distribuimo el nostro tempo e el nostro intelletto; e se qualche volta no respiressimo con un poco de sollievo e de devertimento, la nostra profession deventerave un supplizio, e la nostra applicazion sarave una malattia. Basta che quando s’applica a quella tal cossa, se ghe applica de cuor, con tutto el spirito, con tutto l’omo; e che nella gran zornada, quando se tratta della decision della causa, se fazza cognosser al cliente, al giudice e al mondo tutto, che messe su una balanza le fadighe da una banda, e la mercede dall’altra, pesa più de tutto l’oro e de tutto l’arzento i onorati sudori de un avvocato.

BEAT. Evviva il signor Alberto.

LEL. Amico, state cogli occhi chiusi. Avete un uomo, che per la virtù, per la eloquenza e per l’onoratezza si è reso venerabile, ed è la delizia del veneto foro.

CON. (Sentite come parla il vostro avvocato avversario? Ma io lo farò mutar frase). (piano a Rosaura)

ROS. (M’innamora e mi fa tremare).

FLOR. Io non pretendo volervi a tutte l’ore e per me solo applicato; ma, signor Alberto, intendiamoci senza parlare.

ALB. Non ho sta abilità de capir chi no parla.

FLOR. Con grazia di questi signori, vi dirò una parola.

ALB. Con permission. (La diga). (si alza dal suo posto, e va vicino a Florindo)

FLOR. (Prima vi trovo col ritratto, ed ora coll’originale; che volete che io possa pensare di voi?)

ALB. (L’ha da pensar che son un omo onorato).

FLOR. (Tutto va bene. Ma io non posso soffrire di vedervi vicino alla mia avversaria).

ALB. (Co l’è cussì, voggio contentarla. Andemo via).

FLOR. (Qui non ci dovevate venire).

ALB. (Da omo d’onor, che no saveva che la ghe dovesse esser).

FLOR. (Quando l’avete veduta, dovevate partire).

ALB. (Oh! questo po no. Non son capace né de increanze, né de affettazion. Se mostrasse aver suggizion del cliente avversario, me dechiarirave per un omo de poco spirito. E po nualtri avvocati no semo nemici dei nostri avversari. Se disputa la rason della causa, e no el merito della persona; e tanti e tanti i magna, i beve e i sta in bonissima conversazion con quelle istesse persone, contra le quali con tutto el spirito i se dispone a parlar. La verità xe una sola. Con questa d’avanti i occhi, no se pol fallar. El vostro sospetto deriva da debolezza de fantasia; la mia franchezza dipende dalla robustezza dell’animo indifferente alle tentazion, e saldo e forte nei onorati impegni della mia profession). Zentildonne riverite, do ore le xe poco lontane. Ho adempio al mio debito, le prego de despensarme. (scostandosi da Florindo)

BEAT. Prenda pure il suo comodo. Non voglio esser causa che si rammarichi il signor Florindo.

ALB. La supplico scusar l’incomodo. Ghe rendo infinite grazie d’averme degnà della so esquisita conversazion. E se mai la me credesse capace de poderla obbedir, la prego onorarme dei so comandi. (a Beatrice)

BEAT. Ella è pieno di gentilezza e di cortesia.

ALB. Signora, ghe son umilissimo servitor. (a Rosaura)

ROS. (Non voglio né rispondergli, né mirarlo). (da sé)

ALB. Signora, l’ho reverida. (a Rosaura)

ROS. (Crudele!) (da sé)

ALB. Gnanca? Pazienza! (Che pena che me tocca a provar! Ma gnente; penar, tormentarse, morir, ma che no s’intacca l’onor). (da sé, parte)

FLOR. Signora Beatrice, padroni tutti, gli son servitore. (Eppure non mi posso levar dal capo che il signor Alberto ama Rosaura. Le donne hanno avviliti i primi eroi della terra; non sarebbe maraviglia che una donna vincesse il cuore d’Alberto). (da sè, parte)

LEL. Signore mie, se mi permettono, non voglio lasciare l’amico.

BEAT. Servitevi con libertà. Riverite la signora Flaminia.

LEL. Son servo a tutti. (Florindo ha delle gelosie rispetto al signor Alberto; ed io ne fui la cagione. Eppure è vero, in tutte le cose, prima di farle, bisogna consigliarsi colla prudenza, per prevedere le conseguenze. (da sé, parte)

CON. La conversazione è finita. Servitor suo.

BEAT. Va via, signor Conte?

CON. Che cosa ho da fare qui?

BEAT. Vi è la sposa.

CON. La mia signora sposa, quanto meno mi vede, più mi vuol bene; non è egli vero? (a Rosaura)

ROS. Io non contraddico mai.

CON. (Già ha da finire i suoi giorni sopra d’una montagna!) Schiavo suo. (parte)

BEAT. Andiamo nella mia camera, che aspetteremo vostro zio.

ROS. Cara amica, sono in un mare di confusioni.

BEAT. Il signor Alberto pare di voi innamorato.

ROS. Ma se domani mi parla contro, ho perduta la causa.

BEAT. Voglio che domattina andiamo a ritrovare la signora Flaminia, e se ci riesce di parlare al signore Alberto, può essere che si volti a vostro favore.

ROS. Io l’ho per impossibile.

BEAT. Eh! amore fa fare delle belle cose.

ROS. Sì, ma io non son quella che lo possa innamorare a tal segno.

BEAT. Via, via, non dite così; avete due occhi che incantano; s’io fossi un uomo, v’assicuro che mi fareste precipitare. (parte)

ROS. L’amica scherza, ed io ho il cuore afflitto. Domani si decide dell’esser mio; ma pure questa non è la maggiore delle mie passioni. Due oggetti, uno d’amore, l’altro di sdegno, combattono a vicenda il mio cuore. Amo Alberto, odio il Conte. Ma, oh dio! Dovrò perdere quello che adoro, dovrò sposare quello che aborrisco? Miserabile condizion della donna! Nacqui per penare, vivo per piangere, e morirò per non poter più resistere. Alberto, oh! caro Alberto. Sei pur vago, sei pur grazioso! Mi piaci ancorché nemico, ti amo, benché tu mi voglia miserabile, e ti amerei, se tu mi volessi ancor morta. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Giorno. Strada.

 

Il Conte, poi Alberto vestito più ordinariamente.

CON. Questo signor avvocato non favorisce. Se non viene, me la pagherà. È un quarto d’ora che io aspetto. Oramai do nelle impazienze. Ma eccolo. Cammina anco di buon passo. L’amico mi conosce. Ha soggezione di me.

ALB. Servitor obbligato; l’oggio fatta aspettar?

CON. Un poco.

ALB. La compatissa. Ho cercà liberarme da sior Florindo, che in ogni forma el voleva vegnir con mi. La m’ha dito che vegna solo, e solo son vegnù.

CON. Avete fatto bene. Voglio parlarvi segretamente.

ALB. Vorla che andemo al caffè, dove che la m’ha dito giersera?

CON. No, al caffè vi è sempre qualcheduno. Qui in questa strada remota siamo più sicuri di restar soli.

ALB. Dove che la vol. (Che el me volesse far una qualche bulada? Da muso a muso no gh’ho paura). (da sé)

CON. Sentite... Ma prima mi avete a promettere di non parlare con chi si sia di quello che ora sono per dirvi.

ALB. La segretezza e la fede xe do circostanze necessarissime ai avvocati, e nualtri se lasseressimo sacrificar, più tosto che svelar un arcano con pregiudizio de chi ne l’ha confidà.

CON. Ciò non mi basta, giurate di non parlare.

ALB. I omeni onesti non ha bisogno de zuramenti.

CON. Gli uomini onesti non ricusano di giurare, quando non hanno intenzion di tradire.

ALB. Via, per contentarla: zuro de non parlar.

CON. Datemi la mano.

ALB. Eccola.

CON. Oh bravo! Ora brevemente vi spiccio. Credo che voi saprete essere io legato con promessa di matrimonio colla signora Rosaura.

ALB. Lo so benissimo.

CON. Dunque comprenderete da ciò, che la di lei causa diventa mia propria, venendomi assegnato in dote il valor della donazione fattale dal di lei padre adottivo, consistente in ventimila ducati.

ALB. È verissimo; la causa l’interessa infinitamente.

CON. Io non voglio esaminare se la signora Rosaura abbia torto, o abbia ragione; se la donazione si sostenga, o non si sostenga; perché queste sono cose imbrogliate e fastidiose, troppo contrarie al mio temperamento: ma bramerei che voi mi faceste un piacere.

ALB. La diga pur su. Se se poderà farlo, lo farò volentiera.

CON. Compatitemi se vi do del voi. Con gli amici parlo con libertà.

ALB. Me maravegio; non abbado a ste piccole cosse.

CON. Vorrei che, a mio riguardo, abbandonaste la difesa di questa causa.

ALB. Ma cara ella, come voria che fazza? Xe impossibile. La causa xe istruida da mi. Mi ghe ne son in possesso. Ancuo la s’ha da trattar. El principal ha speso i so bezzi, tutto el mondo aspetta sta disputa, mi no so veder el modo de poderme esentar.

CON. Il modo si trova, quanto si vuole. Vi suggerirò io qualche mezzo termine. Potete dire al vostro cliente che avete letta stamane una carta non più vista, che vi fa temere dell’esito; che avete scoperte alcune ragioni dell’avversario, le quali meritano maggior tempo e maggior riflesso; che la causa ha mutato aspetto, e vi è un qualche mancamento nell’ordine, che conviene regolarlo, che vi vuol tempo. Intanto si sospende la trattazione; tramonta l’appuntamento. Voi andate a Venezia. Il cliente si stanca, viene a patti, ed io fo fare l’aggiustamento a mio modo.

ALB. Bellissimi mezzi termini, espedienti suttili e spiritosi, ma no per i avvocati onorati. Lezer carte da novo, scovrir obietti, trovar desordini el zorno che s’ha d’andar in renga, le xe cosse prodotte o da una gran ignoranza, o da una gran malizia, indegne de chi xe arlevadi nel foro.

CON. Facciamo così: fingetevi ammalato. Dite che non potete trattar la causa; troveremo un medico che accorderà che avete la febbre, e dirà che, per guarire, è necessaria l’aria nativa. Anderete a Venezia con reputazione, ed io vi sarò obbligato.

ALB. Xe inutile che la me tenta per sto verso, perché se fusse vero che fusse ammalà, quando la malattia no fusse grave e avesse libera la lengua da poder parlar, me faria condur al tribunal, per trattar la mia causa.

CON. Orsù, vi compatisco; tante fatiche che avete fatte, non devono andare senza mercede. Se vincete la causa, il signor Florindo vi farà un regalo, al più, al più, di cinquanta zecchini; ed io, se ve n’andate, ve ne do cento.

ALB. Caro sior Conte...

CON. E non crediate già ch’io vi voglia promettere per non mantenere. Questi sono cento zecchini, e sono per voi, solo che tralasciate di sostenere questa causa.

ALB. Sior Conte caro, bisogna che la creda che nualtri avvocati no vedemo mai bezzi, che no sappiemo cossa che sia cento zecchini. Ma bisogna che la sappia che nu, a Venezia, cento zecchini i ne fa tanta specie, quanto pol far cento lire in ti so paesi. Nu no femo capital dell’oro, ma del concetto.

CON. Cento zecchini al merito vostro e alla qualità del favore che vi domando, saranno pochi, ma io non posso fare di più; e vi assicuro che questi mi costano qualche sforzo. Ma sentite, se voi mi promettete d’abbandonar questa causa, vi farò un obbligo di duemila e anco di tremila ducati, da pagarveli subito che avrò conseguita la dote di cui si tratta.

ALB. Né tre mille, né diese mille, né cento mille no xe capaci de farme far un’azion cattiva.

CON. Dunque siete risoluto di voler trattar questa causa?

ALB. Resolutissimo.

CON. Né v’importa di veder ridotta a un’estrema miseria una povera fanciulla innocente?

ALB. Fiat jus et pereat mundus.

CON. Non fate conto delle mie premure?

ALB. Non posso tradir el mio cliente per soddisfarla.

CON. Le offerte non servono?

ALB. Niente affatto.

CON. Orsù, se tutto questo non serve, troverò io la maniera di farvi fare a mio modo. (bruscamente)

ALB. Disela dasseno?

CON. Ditemi, sapete chi sono? (alterato)

ALB. Non ho l’onor de conosserla, se non per la conversazion de giersera.

CON. Io sono il conte di Ripafiorita.

ALB. Me ne rallegro infinitamente.

CON. Sono uno, che negl’incontri si è saputo cavare de’ bei capricci.

ALB. Lodo el so bel spirito.

CON. E vi avviso che, se non mi vorrete compiacer colle buone, lo farete colle cattive. (minaccioso)

ALB. Come sarave a dir? La se spiega.

CON. Voglio dire che, se non tralascierete di patrocinar questa causa, se non partirete adesso subito di Rovigo, vi caccierò la spada nei fianchi.

ALB. La me cazzerà la spada nei fianchi?

CON. Sì, signore, vi ammazzerò.

ALB. La me mazzerà? Con chi credela de parlar? Con un martuffo? Con un omo che concepissa timor per le so bulade[9]? No la me cognosse, patron. Pensela che a Venezia quei che porta la vesta[10] non sappia manizzar la spada?

CON. Eh! ci vuole altro che belle parole! Se metto mano, vi farò tremare.

ALB. La se prova, e vederemo chi trema più.

CON. Ma non mi degno di cacciar mano alla spada, contro di uno che non è capace di starmi a fronte. Voglio adoperare il bastone.

ALB. A mi el baston? Cavalier indegno, fora quella spada. (mette mano)

CON. Ti pentirai d’avermi provocato.

ALB. Se morirò, morirò da par mio.

CON. Che vuol dir da par tuo?

ALB. Da omo d’onor, da omo de spirito, da vero venezian.

CON. Pretendi farmi paura con dire che sei veneziano? Non ti stimo, non ti temo, e non ho soggezione di te, né di cento de’ pari tuoi.

ALB. Cussì ti parli? Via, tocco de temerario. (si battono)

SCENA SECONDA

Florindo con spada alla mano, in difesa d’Alberto, e detti.

FLOR. Alto, alto. (si frappone)

ALB. Gnente, sior Florindo. Lasseme terminar.

CON. (Ah! mi dispiace che sia pubblicato il mio tentativo). (da sé)

FLOR. Signor Alberto, questa giornata è destinata per voi a combattere colla voce e non colla spada.

ALB. Son bon per l’uno e per l’altro.

FLOR. Si può sapere, signori miei, la cagione delle vostre collere?

CON. (Se questo colpo m’andò fallito, ne tenterò qualcun altro). (da sé)

ALB. (Ho zurà de no parlar con chi che sia dell’indegna proposizion che m’ha fatta el Conte. No bisogna romper el zuramento). (da sé)

FLOR. È qualche grande arcano la vostra alterazione? Non si può sapere? Non si può rappresentare a un comune amico? Ciò mi mette, signor Alberto, in un gran sospetto.

CON. (Ora mi scopre senz’altro). (da sé)

ALB. (Eccolo qua coi so sospetti; bisogna disingannarlo). (da sé) Sior Florindo, ve dirò mi. Qua el sior Conte m’ha provocà, m’ha tirà a cimento, e no m’ho podesto tegnir.

FLOR. Ma con quali termini, con quali ingiurie vi ha provocato?

CON. Orsù, non ho soggezione di pubblicare io stesso la verità, giacché la debolezza del signor Alberto non sa tacerla. Io ho detto a lui...

ALB. Zitto, patron, la me lassa parlar a mi. Tocca a mi a giustificarme, e no tocca a ella. Sappiè, sior Florindo, che sto patron ha avudo l’ardir, la temerità, de parlar con poco respetto dei Veneziani. Mi che per la mia patria sparzerave el mio sangue, me farave cavar el cuor, no posso tollerar una parola, un accento, che tenda a minorar la so gloria.

CON. Mi maraviglio di voi: io non ho detto...

ALB. Basta cussì; la sa cossa che l’ha dito. La sa che ho zurà de no pubblicar quello che la m’ha dito. La tasa e la se consola che l’ha da far con un galantomo che sa mantegnir la parola, e trattar ben anca coi so propri nemici.

CON. (Il ripiego non è cattivo). (da sé)

ALB. Sior Florindo, vado a casa a serrarme in mezzà, a raccoglierme seriamente e prepararme per la disputa che doverò far. Se m’avè visto coraggioso colla spada alla man, me vederè intrepido nel tribunal. I omeni d’onor e de valor i ha da esser preparadi e disposti all’uno e all’altro esercizio, per se stessi, per i so amici, per la so patria, che va preferida a ogni impegno, a ogni interesse e alla vita istessa. (parte)

SCENA TERZA

Florindo ed il Conte

FLOR. Aspettate, sono con voi..

CON. Signor Florindo.

FLOR. Che mi comandate?

CON. Una parola, in grazia.

FLOR. Eccomi, vi prego a non trattenermi.

CON. Oggi dunque si tratterà questa causa.

FLOR. Oggi senz’altro.

CON. Amico, il vostro avvocato vi tradisce.

FLOR. Come potete voi dirlo? Alberto è un uomo d’onore.

CON. Sì, è un uomo d’onore; ma l’amore fa precipitare gli uomini più saggi ed onesti.

FLOR. È innamorato il signor Alberto?

CON. È innamorato, perduto e pazzo della signora Rosaura.

FLOR. (Ah, ch’io non mi sono ingannato). (da sé)

CON. (Se egli lo crede, non si fiderà che tratti la sua causa). (da sé)

FLOR. Ma come ciò voi sapete?

CON. Ne sono certissimo. So quel che passa fra loro, e so che la signora Beatrice maneggia questo trattato.

FLOR. Di qual trattato intendete?

CON. Di far perdere a voi la causa, per guadagnarsi la grazia della signora Rosaura.

FLOR. (Ah scellerato!) (da sé)

CON. Perché credete ch’io abbia messo mano alla spada contro di colui? Vi ha dato ad intendere delle fandonie. Nacque la contesa perché, avendo io scoperto le sue fattucchierie, l’ho trattato da ribaldo, da traditore.

FLOR. Ma caro signor Conte, se Rosaura vince la causa, deve sposar voi; come dunque il signor Alberto ha da impegnarsi di farla vincere, acciò sia sposa d’un altro? Se le vuol bene, ha da desiderare tutto il contrario.

CON. Eh! amico, voi vedete poco lontano. Intanto gli preme che Rosaura sia ricca, che Rosaura gli sia grata, e poi non gli mancheranno cabale per toglierla a me e farla sua.

FLOR. Voi mi ponete in un laberinto di confusioni, di agitazioni, di smanie. Non so quel ch’io debba credere.

CON. Dubitate forse di mia puntualità?

FLOR. Non dubito di voi: ma mi pare di fare un gran torto al signor Alberto.

CON. E voi lasciatelo fare. Ve ne accorgerete, quando non vi sarà più rimedio.

FLOR. Possibile ch’ei mi tradisca?

CON. Ve l’assicuro.

FLOR. (E me lo confermano il ritratto, la conversazione e le sue parole). (da sé)

CON. Che risolvete di fare?

FLOR. Ci penserò.

CON. (Con un sì gran sospetto non farà correre la sua causa. Avrò tempo da maneggiarmi, e l’avvocato se n’anderà). (da sé, parte)

SCENA QUARTA

Florindo solo.

 

FLOR. Dunque Alberto m’inganna? Parla con tanta energia dell’onore, vanta con tanto fasto la illibatezza dell’animo, sostenta con tanta forza la sua sincerità, la sua fede, e poi si lascia così facilmente subornare, si dà così vilmente ad una cieca passione in preda? Anima vile, cuor bugiardo, labbro mendace... Ma che faccio? Condanno a dirittura il mio difensore col fondamento delle asserzioni d’un suo e mio nemico? Non potrebbe egli tessermi quell’inganno che mi figura dal mio avvocato tessuto? Certo che sì, e con molto maggior fondamento posso temere il Conte, più dell’amico Alberto. Dunque si lasci ogni rio sospetto e si tratti la causa... Ma, oh dio! E se fosse vero che Alberto fosse colla mia avversaria contro di me congiurato? Ieri lo vidi col ritratto sul tavolino. Si turbò, si confuse e addusse dei mendicati pretesti. La sera lo ritrovo alla conversazione fra Rosaura e Beatrice, ed ora il Conte mi fa sospettare e dell’una e dell’altra. Questi sospetti uniti insieme formano quasi una certa prova della reità dell’animo del mio avvocato. Che farò? Che risolvo? Sospenderò la causa. E poi ricominciarla da capo? Orsù, voglio ritrovare l’amico Lelio. Vo’ fargli la confidenza... Ma no, Lelio difenderà un avvocato da lui propostomi, e chi sa che Lelio non sia d’accordo? Anch’egli è della conversazione. Non so che dire, non so che pensare, non so che risolvere. Quattr’ore mancano ancora al mezzo giorno, e più di otto alla trattazione della causa. Ci penserò seriamente, mi consiglierò con me stesso, e quand’altro non mi rimanga, farò una risoluzione da disperato.

SCENA QUINTA

Camera d’Alberto in casa di Lelio, con tavolino e scritture.

 

Alberto senza spada e senza cappello, passeggiando con un foglio in mano,

in modo di studiar la causa; poi un Servitore

ALB. Se vede chiara l’intenzion d’Anselmo Aretusi. L’ha fatto la donazion in tempo che no l’avea fioli. Se l’avesse avudo fioli, nol l’averia fatta; donca, per la sopravenienza del maschio, xe nulla la donazion. Mo el padre natural l’ha dada co sta fede al padre adottivo, l’è stada pregiudicata nei beni paterni. Se questo xe l’obietto, el se resolve con somma facilità...

SERV. Illustrissimo.

ALB. Coss’è, amigo!

SERV. L’illustrissima signora Flaminia, mia padrona, supplica vossignoria illustrissima, se volesse compiacersi di passare nella sua camera, che avrebbe da dirgli una cosa di premura.

ALB. Cossa fala stamattina la vostra padrona?

SERV. Sta meglio di molto. Stanotte non ha avuta febbre.

ALB. Ho gusto da galantomo. Son a servirla; ma diseme, caro vecchio, gh’è nissun in camera da ella?

SERV. Illustrissimo sì, vi sono due signore venute a fare una visita alla padrona.

ALB. Chi ele ste do signore?

SERV. Una la signora Beatrice, e l’altra la signora Rosaura.

ALB. (Siora Beatrice e siora Rosaura?) (da sé) Sentì amigo, diseghe alla vostra padrona che la me compatissa, che son drio a studiar la causa, e che no posso vegnir.

SERV. Dirò quel che ella mi comanda.

ALB. Sior Lelio, vostro patron, ghe xelo?

SERV. Illustrissimo no, è fuori di casa.

ALB. (Tanto pezo). (da sé) Diseghe che no la posso servir.

SERV. Illustrissimo sì.

ALB. Serrè quella porta.

SERV. Sarà servita. (parte e chiude la porta)

ALB. Cossa vol dir sto negozio? Xe otto dì che son qua in sta casa, non ho mai visto ste do signore vegnir a far visita a siora Flaminia, benché la sia stada tutto sto tempo in letto ammalada. Le vien stamattina dopo la conversazion de giersera, le me fa chiamar, le me vol parlar? Qua ghe xe qualche mistero. Siora Rosaura s’è accorta che gh’ho per ella qualche inclinazion, e la vien fursi a tentarme colla speranza de trionfar della mia costanza. Ma la s’inganna, se la crede de orbarme colla so bellezza. So per altro che in te le battaglie amorose se venze più facilmente fuggendo che combattendo, onde fuggo l’occasion de vederla, per assicurarme della vittoria. Tornemo a nu. Se la donazion fusse fatta dei soli beni acquistadi dal donator, se podaria disputar se de quelli el podeva o nol podeva disponer...

SCENA SESTA

Beatrice di dentro batte alla porta della camera, e detto.

ALB. Chi è de là?

BEAT. Favorisce, signor Alberto? (di dentro)

ALB. Oh maledetto el diavolo! Le xe qua.

BEAT. Si contenta ch’io la riverisca per un momento? (come sopra)

ALB. Padrona, son a servirla. La xe siora Beatrice; quell’altra, come putta, pol esser che no l’ardissa vegnir. Con questa posso liberamente parlar. (apre)

SCENA SETTIMA

Beatrice, Rosaura e detto; poi il Servitore

BEAT. È molto circospetto il signor Alberto.

ALB. La perdoni, giera drio a certe carte. (Xe qua anca st’altra. Oh poveretto mi!) (da sé)

ROS. Il signor Alberto averà saputo che ci era io, e per questo averà fatto serrar la porta.

ALB. Per dirghe la verità, me figurava de veder stamattina in sta casa tutte le persone del mondo, fora de ella.

ROS. Non crediate già ch’io sia venuta per voi. Son venuta a vedere la signora Flaminia.

ALB. De questo ghe ne son certo; e me stupisso come la se sia degnada de vegnir in te la mia camera.

ROS. Vi son venuta per compiacere la signora Beatrice.

ALB. In cossa la possio servir? (a Beatrice)

BEAT. Se vi do incomodo, vado via.

ALB. La vede, gh’ho i summari per man.

BEAT. Non l’avete ancora studiata questa gran causa?

ALB. Questo xe el zorno del gran conflitto.

ROS. Questo è il giorno in cui il signor Alberto avrà la gloria di vedermi piangere amaramente.

BEAT. Poverina! sarebbe una crudeltà troppo barbara. Direi che avete un cuore di tigre. (ad Alberto)

ALB. Ele venude per tormentarme?

BEAT. No, no, andiamo subito. Vedo l’accoglimento che voi ci fate. Non ci esibite nemmen da sedere? Non credeva che gli uomini virtuosi fossero nemici del viver civile.

ALB. No pensava che le se volesse trattegnir.

BEAT. Ho una cosa da dirvi. Ve l’ho da dir così in piedi?

ALB. La servirò, come la comanda. Chi è de là?

SERV. Illustrissimo.

ALB. Tirè avanti una carega.

ROS. Ed io starò in piedi?

ALB. (No so dove che gh’abbia la testa). (da sé) Tireghene do. (al Servitore)

BEAT. E voi non volete sedere?

ALB. Tireghene tre, quattro, sie. (alterato, al Servitore)

BEAT. No, no, basta tre. Siete molto collerico, signor Alberto.

ALB. La compatissa. Stamattina son fora de mi.

BEAT. Sedete là, signora Rosaura; io sederò qui, e il signor Alberto nel mezzo.

ALB. (Se vien sior Florindo, stago da frizer). (da sé) Sentì, quel zovene. (piano al Servitore) (Se vegnisse el sior Florindo, e che ghe fusse qua ste do zentildonne, avanti de farlo passar, avviseme).

BEAT. (Ehi, ci siamo intesi, quando vi fo cenno, chiamatemi; vi sarà la mancia). (piano al Servitore)

SERV. (Sarà servita). (piano a Beatrice e parte; poi torna)

BEAT. Via, sedete, signor avvocato. (lo fa sedere in mezzo)

ROS. Se vi dà fastidio la mia vicinanza, mi tirerò più in qua.

ALB. Ma no, la staga pur salda. (Me vien caldo e freddo tutto in una volta). (da sé) E cussì, cossa m’ala da comandar? (a Beatrice)

BEAT. Io non intendo di comandare, ma di pregarvi.

ALB. In quel che posso, sarò pronto a servirla.

BEAT. Vi prego per quella povera sventurata.

ALB. Mo cara ella, cossa ghe posso far?

BEAT. Tutto potete, se di lei vi movete a pietà.

ALB. Più che ghe penso, e manco me vedo in stato de poder far gnente per ella.

BEAT. Dite che siete ostinato nel volerla vedere precipitata.

ROS. Eh via, signora Beatrice, non gettate invano il tempo e la fatica. Il signor Alberto ha dell’avversione per me, ed è superfluo sperare aiuto da una persona che mi odia.

ALB. No, siora Rosaura, no la odio, no gh’ho dell’avversion per ella; ma son in necessità de defender el so avversario.

BEAT. Perché siete in questa necessità?

ALB. Perché per mia desgrazia l’ho cognossù avanti de siora Rosaura, e me son impegnà de defenderlo prima d’aver visto le bellezze dell’avversaria.

BEAT. Dunque se prima aveste veduto la signora Rosaura, avreste difesa lei e non il signor Florindo?

ALB. Oh! questo po no. Non è possibile che mi defenda chi no son persuaso che gh’abbia rason. Se se trattasse del mio più stretto parente, de mi medesimo, parleria schietto; e per tutto l’oro del mondo, e per qualunque passion, no me metterave mai a defender chi gh’ha torto, colla speranza de far valer i sofismi, le macchine e le invenzion.

ROS. Eh! dite piuttosto che non avreste intrapreso a difendermi per l’antipatia che avreste avuta colla cliente.

ALB. Se me fusse lecito dirghe tutto, la poderia assicurarse che anzi una violentissima simpatia me trasporta all’ammirazion del so merito, e alla compassion del so stato.

ROS. Se aveste compassione di me, non procurereste di rovinarmi.

ALB. Se fusse in mio arbitrio el renderla felice e contenta, lo farave con tutto el cuor.

BEAT. (Il discorso mi pare bene inoltrato). (da sé) Eh, ehm! (si spurga; il Servitore intende il cenno ed entra)

SERV. Signora, la mia padrona la prega di venir da lei per un momento, che le ha da dire una parola di somma premura. (a Beatrice)

BEAT. Vengo subito (s’alza, e il Servitore parte)

ROS. Se partite voi, vengo anch’io. (a Beatrice)

BEAT. No, no, amica; trattenetevi qui per un momento, che subito torno.

ROS. Farò come volete.

BEAT. Signor Alberto, ora sono da voi.

ALB. Siora Beatrice, per amor del cielo, l’abbia carità de mi. No la me metta in necessità o de precipitarme, o de commetter una mala creanza.

BEAT. Vi lamentate di me, perché vi lascio con una bella ragazza? Un affronto simile dagli uomini della vostra età si prende per una buona fortuna. (parte)

SCENA OTTAVA

Alberto e Rosaura

 

ALB. (Fortuna de marineri, che vol dir tempesta de mar). (da sé)

ROS. Signor Alberto, se vi rincresce di restar meco, partirò subito per compiacervi; ma sappiate che io sono incapace di porre a rischio la vostra e la mia virtù.

ALB. Cussì credo, cussì argomento dalla so modestia, cussì me persuade quell’aria nobile, che spira dolcemente dal so bel viso.

ROS. Giacché la sorte ci ha fatto restar soli...

ALB. Sia sorte, o sia artifizio, non implica gnente affatto.

ROS. Artifizio di chi?

ALB. De un’amiga de cuor, interessada per i so vantaggi.

ROS. Se maliziosa credete la mia condotta, partirò per disingannarvi. (s’alza)

ALB. No, la resta pur. M’ho lassà scampar sta parola, per una spezie de vanità de far cognosser che sul libro del mondo ho letto qualche carta anca mi.

ROS. Io non so che vi dite. Parlerò, se vi contentate; partirò, se me l’imponete.

ALB. La parla: un’incognita forza me obbliga d’ascoltarla.

ROS. Giacché la sorte, dicevo, ci ha fatto restar soli, vorrei pregarvi a non mi negare una grazia.

ALB. No la perda el tempo a domandarme de tralassar la difesa de sior Florindo, perché tutto xe buttà via.

ROS. No, non è questo ch’io voglio chiedervi. Ma una semplice verità che a voi costa poco, e per me può valere moltissimo.

ALB. Co no se tratta de offender la delicatezza dell’onor mio, la parla con libertà, e la se comprometta de tutta la mia sincerità.

ROS. Vorrei che aveste la bontà di dirmi, se le frequenti volte che voi passaste sotto le mie finestre, sia stato mero accidente, oppure desiderio di rivedermi; se gl’inchini che di volta in volta voi mi facevate, erano puri atti di civilià, oppure effetti di qualche piccola inclinazione; se le finezze e le dichiarazioni fattemi ieri sera, sono stati unicamente effetti di mera galanteria, oppure espressioni ed effetti di un cuor parziale, di un cuore che abbia per me concepita qualche cortese stima; qualche generosa passione. Insomma, se io sono presso di voi una indifferente persona, o se posso lusingarmi di aver meritato, se non il vostro amore, almeno la vostra pietà.

ALB. Siora Rosaura, me son impegnà de responder sinceramente, onde non posso nasconderghe la mia inclinazion. Pur troppo dal primo dì che l’ho vista, me son sentio a ferir el cuor. E quando passava sotto le so finestre, e quando cercava l’occasion de vederla, giera un infermo che andava cercando qualche ristoro al so mal. Ma oh dio! la scarsezza del balsamo, in confronto della profondità della piaga, no fava che mazormente irritarla e me accresceva el tormento, nell’atto de procacciarme el remedio. Giersera, oh dio! giersera in che smanie, in che angustie me son trovà! Quei so rimproveri i giera tanti acuti stili, che me trapassava el cuor. Quelle occhiade, miste de sdegno e de tenerezza, le me strenzeva el petto a segno de no poder respirar. Vederme in grado de dover comparir nemigo in pubblico de una che adoro in privato, l’è una specie de novo tormento, mai più provà dai omeni, mai più inventà dai demòni, mai più figurà dalla crudeltà dei tiranni.

ROS. Dunque mi amate?

ALB. Colla maggior tenerezza del cuor.

ROS. Questo mi basta. Faccia ora di me la sorte il peggio che far ne può; soffrirò tutto senza lagnarmi, se certa sono del vostro amore.

ALB. Sì, cara siora Rosaura, ma la sicurezza del mio amor no pol gnente contribuir al desiderio dei so vantaggi. La vede, son nella dura costituzion de dover far quanto posso per renderla miserabile; e me pianze el cuor e se me giazza el sangue, co penso ch’el debito della mia onestà vol che butta da banda tutte le belle speranze della mia passion.

ROS. Vi compatisco più di quello che figurar vi possiate; e benché abbia mostrato d’avere a sdegno la vostra eroica costanza, l’ho internamente approvata; e tanto più vi trovo degno dell’amor mio, quanto più vi vedo impegnato a preferir l’onore all’amore. Se foste condisceso ad abbandonare il cliente per compiacermi, avrei goduto di mia fortuna, ma non avrei avuta stima pel vostro merito; e amando l’effetto del tradimento, avrei temuto il traditore medesimo.

ALB. Bei sentimenti, degni de un animo bello come xe el soo! Quanto più m’innamora sta bella virtù de quel bel viso e de quei bei occhi! Siora Rosaura, per amor del cielo, no la tormenta più el mio povero cuor.

ROS. M’intimate voi la partenza?

ALB. Ghe raccomando la mia reputazion. Sto nostro colloquio pien d’eroismo, pien de virtù, sa el cielo come el vegnirà interpretà da chi no sente la frase estraordinaria delle nostre parole.

ROS. Una sola cosa vi dico, e parto immediatamente.

ALB. L’ascolto con impazienza.

ROS. Vi amo e vi amerò fin ch’io viva.

ALB. E la me vorrà amar, dopo che per causa mia la sarà infelice?

ROS. Vi amerò appunto per questo, perché resa mi avrà infelice la vostra virtù.

ALB. Un amor de sta sorte merita una maggior ricompensa.

ROS. Son nata misera, e morirò sventurata.

ALB. Vorria consolarla, ma no so come far.

ROS. (Destino perverso, sorte crudele!) (piange)

ALB. (La tenerezza me opprime el cuor). (da sé)

SCENA NONA

Beatrice e detti.

BEAT. Eccomi a voi.

ALB. (Manco mal; l’è vegnuda a tempo). (da sé)

BEAT. Che vuol dire che vi veggo tutti due turbati e sospesi? Rosaura, pare che abbiate le lacrime agli occhi.

ROS. Cara amica, partiamo.

BEAT. Già me n’accorgo. Questo signor avvocato, indurito come un marmo, è inflessibile alle vostre preghiere, alle vostre lacrime. Vuol trattar la causa, non è egli vero? Vuol difendere il signor Florindo e precipitare la povera signora Rosaura? Ma che? Nemmeno mi rispondete? È questa tutta la vostra civiltà? Che ne dite, Rosaura, è un bell’uomo il signor Alberto? Ma nemmen voi parlate? Cos’è questa novità? Siete due statue? Io non vi capisco. Volete che ve la dica? mi parete due pazzi, e per non impazzire con voi, vi do il buon giorno, e me ne vado per i fatti miei. (parte)

SCENA DECIMA

Rosaura ed Alberto

ROS. Signor Alberto, abbiate compassione di me.

ALB. La sa in che impegno che son.

ROS. Non dico che abbiate compassione della mia roba, ma che abbiate compassione di me.

ALB. Come? In che maniera?

ROS. Vogliatemi bene. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Alberto, poi Florindo ed il Servitore

ALB. Oimè! non posso più. Oh dio! el mio cuor! Oimè! non posso più respirar. (si getta a sedere)

SERV. Aspetti che lo avvisi, e poi entrerà. (a Florindo, trattenendolo)

FLOR. Voglio passare. (sulla porta)

SERV. Ma questa poi...

FLOR. Va al diavolo. (entra a forza; Alberto s’alza)

ALB. Servo, sior Florindo. (El l’ha vista, el l’ha incontrada!) (da sé)

FLOR. Patron mio riverito. (Posso veder di più? Rosaura nella sua camera a patteggiare il prezzo del tradimento?) (da sé)

ALB. Coss’è, sior Florindo, cossa vuol dir? Ghe fa spezie aver visto siora Rosaura in te la mia camera? La sappia...

FLOR. Alle corte, signor Alberto, mi favorisca le mie scritture.

ALB. Quale scritture?

FLOR. Tutto quello che ella ha di mio. I processi, i contratti, le copie, le scritture, i sommari; mi favorisca ogni cosa.

ALB. M’immagino che la burla.

FLOR. Ah sì, non mi ricordava. Prima di ritirare le mie scritture, ho da pagare il mio debito. Favorisca di dirmi quanto le ho da dare per tutto quello che si è compiaciuta fare per me.

ALB. Me maraveggio, sior Florindo; mi no pattuisso mercede sulle mie fadighe. Quando averò trattà la causa, la farà tutto quello che la vorrà.

FLOR. No, no, non v’è bisogno che vossignoria s’incomodi. La causa non si disputa più.

ALB. No? Perché?

FLOR. Mi voglio accomodare, non voglio arrischiare il certo per l’incerto; si contenti di darmi le mie carte.

ALB. Sior Florindo, no la tratta né con un sordo, né con un orbo. Capisso benissimo da che dipende sta novità. L’aver visto vegnir fora dalla mia camera la so avversaria, accredita quel sospetto che l’aveva concepido contro de mi; ma se el fusse stà presente ai nostri discorsi, l’averia avù motivo de consolarse, vedendo a che grado arriva la mia onestà e la mia fede.

FLOR. Son persuaso di tutto, ma voglio le mie carte indietro, ma la causa non si tratterà più.

ALB. Le carte indrio? La causa no se tratterà più? A un omo della mia sorte se ghe fa sto boccon de affronto?

FLOR. Di me non vi potete dolere; vi ho avvisato per tempo; non solo non vi siete corretto, ma avete fatto peggio: vostro danno.

ALB. Ah! pur troppo nasse a sto mondo de quei casi, de quei accidenti, dai quali l’omo no se pol defender, e l’animo più illibato, più giusto, comparisse in figura de reo. Tal son mi, ve lo zuro, ve lo protesto. Varie apparenze se unisse a farme creder colpevole, ma son innocente, ma son onesto, ma son Alberto, son un omo civil, che no degenera dalla so condizion.

FLOR. Potrete voi negarmi d’aver della passione e dell’amore per la signora Rosaura?

ALB. No, stimo tanto la verità, che no la posso negar. Amo siora Rosaura, come mi medesimo; l’amo con tutto el cuor. Ma che per questo? Me crederessi capace de tradir el cliente, per favorir una donna che me vol ben? No, sior Florindo, morirò più tosto che commetter una simile iniquità.

FLOR. Io vi ripeterò a questo passo quello che un’altra volta vi ho detto. Se le volete bene, vi compatisco. Ma non conviene che vi arrischiate parlare contro una persona che amate.

ALB. Se el mio amor verso sta creatura fusse nato avanti che me fusse impegnà con vu, per tutto l’oro del mondo non averave accettà sta causa contra de ella. Ma l’è nato in un tempo, che za giera impegnà, in un tempo che no me posso sottrar dall’impegno, senza macchia della mia reputazion.

FLOR. Ma se io ve ne assolvo, non vi basta? Se son pronto pagarvi tutte le vostre mercedi, non siete contento?

ALB. No me basta, no son contento. I bezzi no li stimo, d’una causa no fazzo conto, me preme el mio decoro, la mia fama, la mia estimazion. Cossa diria Venezia de mi, se là tornasse senza aver trattà quella causa, per la qual tutti sa che son vegnudo a Rovigo? La verità se sa presto, e per quanto la vostra onestà procurasse celarla, le male lengue se faria gloria de pubblicarla. Se diria per le piazze, per le botteghe, per i mezzai[11], per i tribunali: Alberto xe vegnù a Venezia senza trattar la so causa. Perché? Perché el s’ha innamorà della bella avversaria; e el so cliente, diffidando della so onoratezza, della so pontualità, el gh’ha levà le carte, el l’ha cazzà via. Bell’onor, bella gloria che me saria acquistà a vegnir a Rovigo! Sior Florindo, no sarà mai vero che parta da sto paese senza trattar sta causa, che me sta tanto sul cuor.

FLOR. Basta, per oggi non si tratterà più; per l’avvenire ci penseremo.

ALB. Come! No la se tratterà più? No xela deputada per ancuo dopo disnar?

FLOR. Io sono andato dal signor giudice a levar l’ordine, e l’ho pregato di far notificare la sospensione all’avvocato avversario.

ALB. L’alo mandada a notificar?

FLOR. Non vi era il messo, ma prima del mezzogiorno sarà notificata.

ALB. Ah! sior Florindo, za che gh’è tempo, remediemo a sto gran desordene, impedimo sta sospension, lassemo correr la trattazion della causa. Per un sospetto, per un pontiglio, per un’idea insussistente e vana no se precipitemo tutti do in t’una volta, no femo rider i nostri nemici.

FLOR. Tant’è, ho risoluto così. I miei non sono sospetti vani, ma ho in mano la sicurezza che mi volete tradire.

ALB. Oimè! Cossa sentio? Oh! che stoccada al mio cuor! Se in altra occasion me vegnisse fatta un’offesa de sta natura, farave tornar la parola in gola a chi avesse avudo la temerità de pronunziarla; ma in sta contingenza, in sto stato nel qual me trovo, bisogna che ve prega, che ve supplica a dirme con qual fondamento me podè creder un traditor.

FLOR. Tutte le apparenze vi dimostrano tale, ma poi il signor Conte istesso mi assicura che avete patteggiato con la signora Rosaura di precipitar la mia causa, per acquistarvi la di lei grazia.

ALB. Ah infame! ah scellerato! Se un zuramento no me impedisse parlar, ve faria inorridir, rappresentandove con che massime, con che progetti quell’anema negra ha tentà de sedurme. E vu vorrè, sior Florindo, creder a lu che ve xe nemigo, più tosto che a mi, che son el vostro avvocato?

FLOR. Per non far torto a nessuno, sospenderò di creder tutto, ma la causa non si tratterà.

ALB. Se no se tratta sta causa, son rovinà.

FLOR. Ma io vi parlo schietto. Non voglio arrischiarmi di perderla, con questi dubbi che ho nella mente.

ALB. No ve dubitè, no la perderemo. Sta volta la causa xe tanto chiara, che ve prometto pienissima la vittoria.

FLOR. E se si perde?

ALB. Se la se perde per causa mia, me esibisso mi pagar tutte le spese del primo giudizio e dell’appellazion. Son pronto a farve un obbligo, e vegnì qua, che ve lo fazzo subito, se volè. Se dell’obbligo no ve fidè, ve darò in pegno tutto quello che gh’ho. Le spese della causa no se pol estender a tanto, ma n’importa, ve darò anche la camisa, ve darò el cuor, purché se salva el mio decoro, la mia reputazion. Caro sior Florindo, omo onesto, omo da ben, abbiè compassion de mi. Son qua a pregarve che me lassè trattar sta causa, che me lassè resarcir quella macchia che l’accidente, ma più la malizia d’un impostor, ha impressa sull’onorata mia fronte. L’unico patrimonio dell’omo onesto xe l’onor; l’onor xe el capital più considerabile dell’avvocato. Più se stima un omo onesto, che un omo dotto. No me levè sto bel tesoro, custodìo con tanto zelo nell’anima; andè dal giudice, retrattè la sospension, lassè che corra la causa, fideve de mi, credeme a mi, che più tosto moriria mille volte che sporcar con azion indegne la mia nascita, el mio decoro. Ve prego, ve supplico, ve sconzuro.

SCENA DODICESIMA

Lelio e detti.

FLOR. (Ah! sì, mi sento portato a credergli. Sarebbe troppo scellerato, se mi tradisse). (da sé)

LEL. Amico, che avete che mi parete assai mesto? Che è ciò che tanto vi preme, che abbiate a chiedere con tanta forza? con sì gran calore?

ALB. Ve dirò; giera qua che me parecchiava alla disputa. Me figurava de esser davanti al giudice, e infervorà nella conclusion della renga, domandava giustizia alla rason, alla verità.

LEL. Questo è troppo, perdonatemi. Bisogna guardarsi da certe caricature.

ALB. Bravo, disè ben, lo so anca mi. Ma a logo e tempo bisogna valerse dei mezzi termini. E sta volta la mia disputa giera d’un certo tenor, che bisognava terminarla cussì.

FLOR. Signor Alberto, la vostra disputa non mi dispiace. Vado a confermare al giudice la trattazione per oggi.

ALB. Sia ringrazià el cielo. No vedo l’ora de far conosser al mondo chi son.

LEL. Tutti sanno che siete un bravo oratore.

ALB. Eh! amigo, spero far cognosser una cossa che preme più.

LEL. Io non v’intendo.

FLOR. L’intendo io, e tanto basta. Dopo pranzo sarò da voi.

ALB. Songio siguro?

FLOR. Sicurissimo.

ALB. Sieu benedetto. Tolè, che ve lo dago de cuor. (gli dà un bacio)

FLOR. (Se il Conte mi ha ingannato, me ne renderà conto). (parte)

SCENA TREDICESIMA

Alberto e Lelio

LEL. Amico, ora che siamo soli, mi voglio sgravare di un peso che ho sullo stomaco. Per Rovigo si è sparsa la voce che voi siate innamorato della signora Rosaura, e ciò mi dispiace infinitamente, mentre, se ciò fosse, io ne sarei la cagione, per avervi condotto in conversazione con lei.

ALB. Veramente savè che mi v’ho pregà de lassarme a casa, e vu a forza m’avè volesto obbligar de vegnir con vu. Ve aveva confidà avanti, che me piaseva siora Rosaura, ma siccome non aveva parlà longamente con ella, e non aveva scoverto el so cuor, giera in un stato da poderla trattar con indifferenza. Ve confesso la verità; la conversazion de giersera, el colloquio de stamattina, m’ha fenio intieramente d’innamorar.

LEL. Dunque, come anderà la causa?

ALB. Benissimo, se piase al cielo.

LEL. La tratterete con tutto l’impegno a favor del vostro cliente?

ALB. La saria bella! Son qua per quello.

LEL. E parlerete contro la vostra bella?

ALB. Senza una immaginabile difficoltà.

LEL. Ma si può far questa cosa? Si può agire contro una persona che si ama?

ALB. Se pol benissimo.

LEL. Come? Caro amico, spiegatemi il modo con cui ciò si può fare, perché io non ne son persuaso.

ALB. Ve lo spiegherò in do maniere: moralmente e fisicamente. Moralmente, rispetto a mi, considerando el mio dover, no me lasso regolar dall’affetto, ma dalla prudenza; e trovandome in un impegno dal qual nome posso sottrar senza smacco e senza pericolo della mia reputazion, fazzo che la virtù trionfa del senso inferior. Fisicamente ve digo che xe diverse le passion de l’omo, che operando una, l’altra cede, che piena la fantasia d’una forte impression verso un oggetto, no ghe resta logo per rifletter sora d’un altro. Altro xe operar per accidente, altro xe operar per mistier. Se mi no fusse avvocato, no saveria e no poderia parlar contra una persona che amo; ma facendolo per profession, parlo per uso e per costume, e monto in renga per far el mio debito, senza rifletter alle mie passion.

LEL. Bellissimo è il vostro sistema; non so però se venga comunemente abbracciato.

ALB. Tutti i omeni d’onor se regola in sta maniera. Quando vedè un avvocato in renga, disè pur francamente: quell’orator xe tanto trasformà nella persona del so cliente, che l’è incapace d’una minima distrazion.

LEL. Ammirerò con sentimento di giubilo questa vostra magnanima azione.

ALB. No gh’averò gnente de merito a far el mio dover.

LEL. Mi dispiace per altro infinitamente aver dato motivo al vostro cuore di qualche pena. Credetemi, l’ho fatto innocentemente, e ve ne chiedo scusa di cuore.

ALB. Se in tutte le operazion se vedesse le conseguenze, l’omo no falleria cussì spesso.

LEL. Non mi mortificate d’avvantaggio. Ne provo una pena non ordinaria.

ALB. Mah! l’è cussì. Chi non conversa è salvadego. Chi conversa, precipita. Felice el mondo, se se usasse per tutto delle oneste e savie conversazion, composte de zente dotta, prudente e de sesso egual. Queste xe quelle che rende profitto ai omeni, decoro alle città, bon esempio alla zoventù. Da queste vien fora quei grand’omeni, pieni de bone massime e de dottrina, nati a posta per el pubblico e privato ben. El studio no profitta tanto, quanto l’uso delle oneste e dotte conversazion. Studiando se impara con fadiga e con pena, conversando se impara con facilità e con piaser, perché unendose quel utile dulci, tanto commendà da Orazio, l’omo se istruisce nell’atto medesimo che el se diverte. Ma le massime de bona educazion le m’ha trasportà a segno, che più no me recordava della mia causa. Cussì quando tratterò la mia causa, sarò trasportà intieramente in quella; e dopo, sollevà dalla grand’azion, che requirit totum hominem, pol esser che me lassa allettar dall’amor, che xe la più forte, la più violenta passion della nostra miserabile umanità. (parte)

LEL. Il signor Alberto ha fatto più profitto sovra il mio spirito con queste quattro parole, che non avrebbero fatto dieci maestri uniti assieme. Più volentieri si ode un amico, di un precettore; e più facilmente s’insinuano le correzioni amorose, di quello facciano le strepitose. Questo è quello che si guadagna a praticar degli uomini dotti; sempre s’impara qualche cosa di buono. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Camera della conversazione in casa di Beatrice, con tavolini e candelieri: il tutto in confuso,

rimasto così dopo la conversazione della sera innanzi.

 

Colombina ed Arlecchino

COL. Ecco qui, siamo sempre alle medesime. Da ieri sera in qua non hai fatto nulla. Le sedie, i tavolini, i candelieri, le carte, tutto in confuso.

ARL. A ti, che te piase la pulizia, perché no t’è vegnù in testa d’accomodar, de nettar, de destrigar e de no vegnirme a seccar?

COL. Pezzo d’animalaccio! Ho da far tutto io?

ARL. Mi la mia parte la fazzo in cusina.

COL. Via dunque, prendi quei candelieri, e valli a ripulire.

ARL. Ben, mi netterò i candelieri, e ti ti farà el resto.

COL. Io raccoglierò le carte. (s’accostano tutti due al tavolino)

ARL. Olà! (alza un candeliere, e vi trova sotto li due zecchini, lasciati da Alberto)

COL. Che cosa c’è? (se ne accorge)

ARL. Niente. (li vuol nascondere)

COL. Hai trovati dei denari: sono a metà.

ARL. Chi trova, trova; questa l’è roba mia.

COL. Due zecchini? Uno per uno.

ARL. De questi no ti ghe ne magni. L’è roba mia.

COL. Non è vero. Le mance e queste cose si spartono fra la servitù.

ARL. Mi no so de tanto spartir. Chi trova, trova.

COL. Lo dirò alla padrona.

ARL. Dillo a chi ti vol. Sti do zecchini i è mii.

COL. Non è vero. Toccano metà per uno. La vedremo.

ARL. Sì. La vederemo.

COL. Voglio il mio zecchino, se credessi di fare una lite.

ARL. No te lo dago, se credesse de farme impiccar.

SCENA QUINDICESIMA

Il dottore Balanzoni e detti.

DOTT. Chi è qui? Vi è mia nipote?

COL. Signor no; è uscita di casa colla mia padrona. Non sono ancora ritornate.

DOTT. L’ora s’avanza. Abbiamo da pranzare; dopo desinare corre la causa, e questa signora non si vede.

COL. Mi dai il mio zecchino? (ad Arlecchino)

ARL. Signora no.

COL. Sei un ladro.

ARL. Son un galantomo. Sel te vegnisse, te lo daria.

COL. Mi tocca assolutamente. Aspetta. Signor Dottor, ella che è avvocato, favorisca decidere una contesa che verte fra di noi.

ARL. La favorissa dir la so opinion, ma senza paga.

DOTT. Dite pure; m’immagino che sarà cosa di gran rilievo! Frattanto verrà Rosaura.

COL. Sappia, signor Dottore...

ARL. Lasseme parlar a mi. La sappia, sior avvocato, che sti do zecchini i è mii...

COL. Non è vero, toccano metà per uno.

ARL. Non è vero niente.

DOTT. Parlate uno alla volta, se volete che io v’intenda.

COL. Arlecchino ha ritrovati due zecchini sotto un candeliere. Sono stati lasciati da un tagliatore, per mancia della servitù; dunque sono metà per uno.

ARL. Non è vero. Chi trova, trova.

COL. Noi facciamo tutte le cose della casa assieme, e anche l’utile deve essere a metà.

ARL. Non è vero che femo le cosse assieme, perché mi dormo nel mio letto, e Colombina nel suo.

COL. Dica, signor Dottore, chi ha ragione?

ARL. Quei zecchini no eli mii?

DOTT. Via, da buoni amici, da buoni compagni: uno per uno.

COL. Senti? (ad Arlecchino)

ARL. No ghe stago.

COL. L’ha detto un dottore.

ARL. L’è un ignorante.

DOTT. Temerario!

SCENA SEDICESIMA

Il conte Ottavio e detti.

CON. Che cosa c’è? Si grida?

DOTT. Quel temerario mi ha perduto il rispetto.

COL. Briccone! Non lo conosci?

ARL. El dis che sti do zecchini, che ho trovà sotto el candelier, li ho da spartir con Colombina.

CON. Lascia vedere quei due zecchini.

ARL. Eccoli qua, li ho trovadi mi.

COL. Sono metà per uno.

CON. Questi sono li due zecchini che avevo io ieri sera; sono miei, e voi altri andate al diavolo.

ARL. Come!...

COL. L’ho caro; né tu, né io.

DOTT. Ecco terminata la lite.

ARL. Sior Conte, i mi do zecchini.

CON. Se parli, ti bastono.

ARL. Maledetta Colombina! per causa toa; ma ti me la pagherà. (parte)

COL. Sì, ho piacere che non li abbia colui. Signor Conte, m’immagino che li avrà presi per darli a me.

CON. Eh, non mi seccate.

COL. (Spiantataccio! Fanno così costoro. Vanno alle conversazioni per iscroccare, e giuocano per negozio). (da sé, parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Il conte Ottavio e il Dottore

DOTT. (Questo signor Conte è di buon stomaco). (da sé)

CON. Dov’è la signora Rosaura?

DOTT. Non lo so. È fuori con la signora Beatrice, e sono qui ancor io che l’aspetto.

CON. Ebbene, corre oggi la causa?

DOTT. Sì, signore, senz’altro.

CON. Avevo inteso dire che era rimasta sospesa.

DOTT. Lo stesso avevo sentito anch’io; ma poi il notaro due ore sono, mandommi ad avvertire che la causa corre.

CON. (Dunque Florindo non ha abbadato alle mie parole). (da sé) Che cosa sperate voi di questa causa?

DOTT. Io spero bene, ma l’esito è sempre incerto; volevo parlar col giudice, ed egli privatamente non ha voluto ascoltarmi.

CON. Credete voi che prema questa causa alla signora Rosaura?

DOTT. Certamente le deve premere. Si tratta di tutto.

CON. Eh! so io che cosa le preme.

DOTT. Che cosa?

CON. Ci burla tutti.

DOTT. Come?

SCENA DICIOTTESIMA

Beatrice, Rosaura e detti.

BEAT. Riverisco lor signori.

CON. Schiavo suo.

DOTT. Ben tornata, la mia signora nipote. Mi pare che sia tempo di andare a casa.

ROS. Caro signor zio, fatemi il piacere, per oggi lasciatemi a pranzo colla signora Beatrice.

DOTT. Signora no, certamente. Oggi si tratta la causa, e voi avete a venire con me al tribunale.

ROS. Io? Che ho da fare al tribunale? Compatitemi, non ci voglio venire.

CON. Eh sì, andate, che le vostre bellezze faranno più del vostro avvocato.

DOTT. Io non ispero nessuno avvantaggio dalla presenza di mia nipote, ma questo è lo stile di questo foro. I clienti, quando possono, devono personalmente intervenire.

ROS. Con qual fronte volete che io sostenga in pubblico la presenza del giudice e gli occhi de’ circostanti? Io non sono avvezza.

CON. Poverina! Temete la presenza del giudice, gli sguardi de’ circostanti? Vi consoleranno gli occhi dell’avvocato avversario.

ROS. (Sfacciato!) (da sé)

DOTT. Come? Vi è qualche novità?

CON. Oh sì, signore, la vostra cliente, la vostra nipote congiura contro di voi, contro di me e contro di se medesima.

DOTT. Ma perché?

CON. Perché è innamorata del veneziano.

DOTT. È egli vero? (a Rosaura)

CON. Non la vedete? Col suo silenzio approva le mie parole. Io vi consiglio, signor Dottore, d’andare avanti al giudice, rappresentar questo fatto di cui ne sarò io testimonio, e sospendere la trattazion della causa. (O per una via, o per l’altra, voglio veder se mi riesce di coglier tempo). (da sé)

DOTT. Dirò, signor Conte, se vado dal giudice con questa ciarla, ho timore di farmi ridicolo. Sia pur la cliente innamorata, se vuole, del suo avversario, le ragioni le ho da dire io, la causa la maneggio io, onde, con sua buona grazia, la causa ha da andare innanzi.

CON. Siete un uomo poco prudente. Andate, trattatela, perdetela; ma vi protesto, che se Rosaura rimane spogliata, se non ha i ventimila ducati, straccio il contratto, annullo l’impegno, e non è degna di essere mia consorte. (parte)

ROS. (Ora principio a desiderare di perder la causa e di rimaner miserabile). (da sé)

BEAT. Povera signora Rosaura, la volete sagrificare. Il Conte non la può vedere. (al Dottore)

DOTT. Quanti matrimoni si son fatti senza amore e senza inclinazione; eppure col tempo si sono accomodati. Non è una bella cosa il diventare contessa?

ROS. La pace del cuore val più de’ titoli e delle ricchezze. Se vinco la causa, se sposo il Conte, vedrete, signore zio, il miserabile frutto delle mie fortune. Stare con un marito che s’odia? Vedersi tutto dì d’intorno un oggetto che si aborrisce? Averlo da obbedire, da amare, da accarezzare? È una pena che non v’ha la simile nell’inferno. Povere donne! Se alcuna mi sentisse, di quelle che dico io, piangerebbero meco per compassione, e consiglierebbero i padri, i congiunti delle povere figlie, a non disporre tirannicamente di loro, a non sagrificare il cuore di una fanciulla all’idolo dell’ambizione o dell’interesse. (parte)

DOTT. Quando si tratta di disputare l’articolo della libertà, le donne ne san più dei dottori; ma non ci sarà nessun giudice che dia loro ragione, non essendo giusto di preferire una vana passione al decoro e all’utile delle famiglie. (parte)

BEAT. Chi sente lei, ha ragione, chi sente lui, non ha torto. È vero che tutte le sentenze in questo proposito uscirebbero contro di noi. Ma perché? Perché i giudici sono uomini; che se potessero giudicare le donne, oh! si sentirebbero dei bei giudizi a favore del nostro sesso. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera del giudice, con tre tavolini e varie sedie.

 

Alberto in abito nero. Un Sollecitatore con delle scritture. Un Servitore col ferraiuolo dell’Avvocato sul braccio, che resta indietro. Florindo e Lelio

FLOR. Questi nostri avversari ancor non si vedono.

ALB. Xe ancora a bonora. La varda, vinti ore adesso.

LEL. Mi dispiace che non abbiate voluto desinare.

ALB. Co parlo dopo pranzo, no magno mai.

FLOR. Ecco gli avversari.

ALB. Mettemose al nostro logo. (ognuno prende il suo posto) Sior Lelio, comodeve dove che volè.

LEL. Sto qui ad ammirare la vostra virtù. (si pone in disparte)

SCENA SECONDA

Il dottor Balanzoni con delle scritture. Rosaura col velo su gli occhi,

vestita modestamente, un Sollecitatore e detti.

(Si salutano tutti fra di loro. Rosaura non guarda Alberto, né Alberto Rosaura. Il Dottore dà ad essa la mano, e la fa sedere sulla banca. Poi siede col suo Sollecitatore al fianco.

Poi viene il Giudice in toga, il Notaro, il Comandador, ed il Lettore. Tutti s’alzano.

(Il Giudice va a sedere nel mezzo. Il Notaro da una parte. Il Comandador in piedi dietro al Giudice. Il Lettore in piedi, presso il tavolino del Giudice, dalla parte del Dottor Balanzoni.)

GIUD. (Suona il campanello)

DOTT. (S’alza) Siamo, qui, illustrissimo signore, per definire la causa Balanzoni e Aretusi. Vossignoria illustrissima non ha voluto leggere la mia scrittura di allegazione, comandi dunque: che cosa ho da fare?

GIUD. Non ho voluto leggere la vostra scrittura d’allegazione in questa causa, perché io, secondo il nostro stile, non ricevo informazioni private. Le vostre ragioni le avete a dire in contradditorio.

DOTT. Le mie ragioni sono tutte registrate in questa scrittura; se vossignoria illustrissima la vuol leggere...

GIUD. Non basta che io la legga; l’ha da sentire il vostro avversario. Se volete, vi è qui il lettore che la leggerà.

DOTT. Se si contenta, la leggerò io.

GIUD. Fate quel che vi aggrada. (Il Lettore va dall’altra parte e si pone a sedere indietro. Il Dottore siede, e legge la scrittura d’allegazione. Alberto colla sua penna da lapis va facendo le sue annotazioni. Rosaura con gli occhi bassi mai guarda Alberto, né egli mai Rosaura)

DOTT. (Legge)

 

RHODIGIENSIS DONATIONIS

pro domina rosaura balanzoni

contra dominum florindum aretusi

 

Illustrissimo Signore

Se è vero, come è verissimo in jure, che unusquisque rei suae sit moderator et arbiter, onde ognuno delle sue facoltà possa a suo talento disporre, vero sarà e incontrastabile che il fu signor Anselmo Aretusi, padre del signor Florindo, avversario in causa, avrà potuto beneficare colla sua donazione la povera ed infelice Rosaura Balanzoni, che col mezzo della mia insufficienza chiede al tribunale di vossignoria illustrissima della donazione medesima la plenaria confermazione, previa la confermazione della sentenza a legge, giustamente a nostro favore pronunciata.

Nell’anno 1724, il fu signor Anselmo Aretusi pregò il fu Pellegrino Balanzoni, padre di questa infelice, che a lui la concedesse per figlia adottiva, giacché dopo dieci anni non aveva avuta prole alcuna dal suo matrimonio. Pellegrino Balanzoni aveva tre figlie, e per condiscendere alle istanze d’Anselmo, si privò di questa, per contentare l’amico; onde eccola passata dalla podestà del padre legittimo e naturale a quella del padre adottivo: Quia per adoptionem acquiritur patria potestas. Per prezzo, o sia remunerazione, d’avergli il padre naturale ceduta la propria figlia, e in tal maniera consolato il di lui dolore per la privazione di prole, fece una donazione alla figlia adottiva di tutti i suoi beni liberi, ascendenti alla somma di ventimila ducati, riserbandosi di testare mille ducati per la validità della donazione. Se morto fosse il padre adottivo senza figliuoli del suo matrimonio nati, non vi sarebbe chi contendesse alla donataria i beni liberi del donatore, ma essendo nato due anni dopo il signor Florindo avversario, egli impugna la donazione, la pretende nulla e di niun valore, e ne domanda revocazione, o sia taglio. Ecco l’articolo legale: se si sostenga la donazione a favore della donataria, non ostante la sopravvenienza del figlio maschio del donatore. A prima vista pare che io abbia a temere la decisione alla mia cliente contraria, fondandosi gli avversari sul testo: Per supervenientiam liberorum revocatur donatio. Lege: Si unquam, Codice de revocandis donationibus. Ma esaminando minutamente il contratto della donazione, le circostanze e le conseguenze, spero di ottenere dalla sapienza del giudice favorevole la sentenza.

Varie ragioni, tutte fortissime e convincenti, m’inducono ad assicurarmi della vittoria.

Prima di tutto è osservabile che quando seguì la donazione di cui si tratta, erano passati dodici anni di matrimonio del donatore, senza aver mai avuti figliuoli, onde si potea persuader ragionevolmente di non più conseguirne. Con questa fede il padre suo naturale si è privato della sua tenera figlia, e senza la previa donazione non gliel’avrebbe concessa.

Ma, più forte, per causa di questa donazione il padre naturale ha collocate le altre due figlie decentemente, né di questa ha fatto menzione. Ha loro distribuite le sue sostanze, ed affidatosi che la terza fosse provveduta coi beni del donatore, è morto senza lasciare alcun benché minimo provvedimento, onde, se Rosaura perde la causa, resta miserabile affatto, destituta di ogni soccorso, senza dote, senza casa e senza alimenti. All’incontro il signor Florindo avversario, se perde, come perderà senz’altro, i ventimila ducati, gli resta la dote materna, consistente in ducati cinquemila, gli restano i fideicommissi ascendentali che ammontano a più di trentamila ducati, come si giustifica nel processo, che avrà vossignoria illustrissima bastantemente osservato.

Tutte le ragioni dette finora, cavate dalle viscere della causa e dalle verità de’ fatti provati, potrebbero bastare per indur l’animo del sapientissimo giudice a pronunciare il favorevole decreto; ma siccome noi altri jurisconsulti erubescimus sine lege loqui, e gridano le leggi: quidquid dicitur, probari debet, mi dispongo a provare colle autorità quanto finora ho allegato. La donazione si sostiene, perché: Donatio perfecta revocari non potest. Clarius in paragrapho donatio, quaestione prima, numero tertio. Né osta l’obbietto: per supervenientiam liberorum revocatur donatio. Perché ciò s’intende quando la donazione è fatta all’estraneo, non quando è fatta al figliuolo. Lege: Si totas, Codice de inofficiosis donationibus. Sed sic est, che la presente donazione è stata fatta alla figlia adottiva; quae per adoptionem aequiparatur filio legitimo et naturali, ergo la donazione non è revocabile.

Ma per ultimo mi sono riserbato il più forte argomento per abbatter tutte le ragioni dell’avversario. La donazione di cui si tratta, benché abbia aspetto di donazione inter vivos, ella però, riguardo all’effetto di essa, verificabile tantum post mortem donatoris, è più tosto una donazione causa mortis, ut habetur ex hoc titulo de donationibus causa mortis. La donazione causa mortis habet vim testamenti. Lege secunda in verbo legatum, Digestis, de dote praelegata. Ergo se non si sostenesse come donazione, si sosterrebbe in vigore di testamento. È vero che mens hominis est ambulatoria usque ad ultimam vitae exitum: ma appunto per questo, perché morendo il donatore non ha revocata la donazione, ha inteso che quella sia l’ultima sua volontà, la quale si deve attendere ed osservare.

Concludo adunque che la donazione non è revocabile, che la donataria merita tutta la compassione, e che unita questa alla giustizia nell’animo di vossignoria illustrissima, mi fa, come diceva a principio, esser sicuro della vittoria. (fa una reverenza al Giudice)

ALB. (S’alza, dà alcune carte al Lettore, che s’alza e s’accosta al tribunale)

(Rosaura alza gli occhi, e vedendo Alberto in atto di parlare, fa un atto di disperazione e si asciuga gli occhi col fazzoletto)

(Alberto la vede, incontrandosi a caso cogli occhi nel di lei volto. Fa anch’egli un atto d’ammirazione. Poi mostra di raccogliersi, e principia la disputa)

ALB. Gran apparato de dottrine, gran eleganza de termini ha messo in campo el mio reverito avversario; ma, se me permetta de dir, gran disputa confusa, gran fiacchi argomenti, o per dir meggio, sofismi. Responderò col mio veneto stil, segondo la pratica del nostro foro, che val a dir col nostro nativo idioma, che equival nella forza dei termini e dell’espression ai più colti e ai più puliti del mondo. Responderò colla lezze alla man, colla lezze del nostro Statuto, che equival a tutto el codice e a tutti i digesti de Giustinian, perché fondà sul jus de natura, dal qual son derivade tutte le leggi del mondo. No lasserò de responder alle dottrine dell’avversario, perché me sia ignoti quei testi o quei autori legali, dai quali dottamente el le ha prese, perché anca nualtri, e prima de conseguir la laurea dottoral, e dopo ancora, versemo sul jus comun, per esser anca de quello intieramente informadi, e per sentir le varie opinion dei dottori sulle massime della giurisprudenza. Ma lasserò da parte quel che sia testo imperial, perché avemo el nostro veneto testo, abbondante, chiaro e istruttivo, e in mancanza de quello, in qualche caso, tra i casi infiniti che son possibili al mondo, dal Statuto o non previsti o non decisi, la rason natural xe la base fondamental sulla qual riposa in quiete l’animo del sapientissimo giudice; avemo i casi seguidi, i casi giudicadi, le leggi particolari dei magistrati, l’equità, la ponderazion delle circostanze, tutte cosse che val infinitamente più de tutte le dottrine dei autori legali. Queste per el più le serve per intorbidar la materia, per stiracchiar la rason e per angustiar l’animo del giudice, el qual, non avendo più arbitrio de giudicar, el se liga e el se soggetta alle opinion dei dottori, che xe stadi omeni come lu, e che pol aver deciso cussì per qualche privata passion. Perdoni el giudice se troppo lungamente ho desertà dalla causa, credendo necessario giustificarme a fronte d’un avversario seguace del jus comun, e giustissima cossa credendo dar qualche risalto al nostro Veneto Foro, el qual xe respettà da tutto el resto del mondo, avendo avudo più volte la preferenza d’ogni altro foro d’Europa, per decider cause tra principi e tra sovrani.

Son qua, son alla causa e incontro de fronte la disputa dell’avversario. Sta bella disputa, fatta da mio compare Balanzoni con tutto el so comodo, senza scaldarse el sangue e senza sfadigar la memoria, la stimo infinitamente; ma, per dir la verità, quel che più stimo e considero in sta disputa, o sia allegazion dell’avversario, xe l’artificio col qual l’ha cercà de confonder la causa, de oscurar el ponto, acciò che no l’intenda né el giudice, né l’avvocato. Ma l’avvocato l’ha inteso, e el giudice l’intenderà. (il Dottore si va scuotendo)

Coss’è, compare? Menè la testa? M’impegno che in sta causa no ghe n’avè un fil de sutto[12]. A mi. Coss’ela sta gran causa? Qual elo sto gran ponto de rason[13]? Xelo un ponto novo? Un ponto che no sia mai stà deciso? El xe un ponto del qual a Venezia un prencipiante se vergogneria de parlarghene in Accademia[14]. La senta e la me giudica su sta verità, dipendente da un’unica carta che el mio reverito sior Balanzoni non ha avudo coraggio de lezer, e che mi a so tempo ghe lezerò. El sior Anselmo Aretusi, padre del mio cliente, dies’anni l’è stà maridà senz’aver prole; el chiamava desgrazia quel che tanti e tanti chiamarave fortuna, e el desiderava dei fioli per aver dei travaggi. L’ha trovà un amigo che gh’aveva una desgrazia più grande della soa, perché el gh’aveva tre fie[15], che ghe dava da sospirar. El ghe n’ha domandà una per fia de anema[16], e lu ghe l’ha dada volentierissimo, e el ghe l’averave dae tutte tre, se l’avesse podesto. Anselmo tol in casa sta piccola bambina, dell’età de tre anni, el s’innamora in quei vezzi innocenti che xe propri de quell’età, e do anni dopo el se determina a farghe una donazion general de tutti i so beni. Ma la senta con che prudenza, con che cautela e con che preambolo salutar l’omo savio e prudente ha fatto sta donazion; e qua la me permetta che, prima de trattar el ponto, prima de considerar i obietti dell’avversario, ghe leza quella carta che xe la base fondamental della causa, quella donazion che ha omesso, forsi non sine quare, de lezer el mio avversario, e che la mia ingenuità xe in impegno de farghe prima de tutto considerar. Animo, sior lettor; chiaro, adasio e pulito: contratto de donazion a carte 4.

LETT. Addì 24 Novembre 1725, Rovigo. (legge caricato nel naso)

ALB. (Fa un atto d’ammirazione sentendolo difettoso) Bravo, sior sgnanfo[17], tirè de longo.

LETT. Considerando il nobile signor Anselmo Aretusi che in dieci anni di matrimonio non ha avuto figliuoli...

ALB. Considerando che in dieci anni di matrimonio non ha avuto figliuoli. Via mo, da bravo.

LETT. E temendo morire...

ALB. E temendo morire...

LETT. Senza sapere a chi lasciare le sue facoltà...

ALB. E temendo morire senza sapere a chi lasciare le sue facoltà. Anemo, compare sgnanfo.

LETT. Avendo preso per figlia d’anima...

ALB. Per figlia d’anima... La fia d’anema vol portar via l’eredità a quello che xe fio del corpo? Bella da galantomo. Avanti.

LETT. La signora...  (non sa rilevare la parola che segue)

ALB. Via, avanti.

LETT. La signora...

ALB. La signora... (lo carica) Tireu avanti, o lezio mi?

LETT. La signora... Rocaura Balanzoni.

ALB. Cossa diavolo diseu? O quei vostri occhiali fa scuro, o vu no savè lezer, compare. Lassè veder a mi. Compagneme coll’occhio, se digo ben. (prende esso i fogli) Avendo presa per figlia d’anima la signora Rosaura Balanzoni, a quella ha fatto e fa donazione di tutti i suoi beni, liberi presenti e futuri, mobili e stabili. Tegnì saldo, basta cussì. (rende i fogli al Lettore)

El donator porlo spiegar più chiaramente la so intenzion? Ghe rincresce non aver fioi, el dubita de morir senza eredi, per questo el dona i so beni alla fia d’anema; ma se el gh’aveva fioi, nol donava, ma se el gh’averà fioi, sarà revocada la donazion. Mo! nol l’ha revocada. Se nol l’ha revocada lu, l’ha revocada la lezze. Cossa dise la lezze? Che se el padre donando pregiudica alla ragion dei fioi, no tegna la donazion. Sta donazion pregiudichela alla rason del fio del donator? Una bagattella! la lo despoggia affatto de tutti i beni paterni. Mo! dise l’avvocato avversario, el gh’ha la dote materna, el gh’ha i fideicommessi ascendentali, el xe aliunde provvisto. Questi no xe beni paterni; questi nol li riconosce dal padre, ma dalla madre e dai antenati. I beni paterni xe i beni liberi, nei quali i fioli i gh’ha el gius della legittima, e el padre senza giusta causa no li pol eseredar. Ma come sto bon padre voleva eseredar un so fio, se el se rammaricava non avendo fioi e se el desiderava un erede? A fronte de una legge cussì chiara, cussì giusta, cussì onesta, cussì natural, no so cossa che se possa dir in contrario. Eppur xe stà dito. El dotto avvocato avversario ha dito. Ma cossa alo dito? Tutte cosse fora del ponto. El vede persa la nave, el se butta in mar, el se tacca ora a un albero, ora al timon, ma un per de onde lo rebalta, lo butta a fondi. Esaminemo brevemente i obietti e risolvemoli, no per la necessità della causa ma per el debito dell’avvocato. Prima de tutto el dise: la donazion se sostien, perché no la xe revocabile. Questo è l’istesso che dir: mi son qua, perché no son là. Ma perché songio qua? Perché non ela revocabile? Sentimo ste belle rason. Compatime, compare Balanzoni, ma sta volta l’amor del sangue v’ha fatto orbar. La xe vostra nezza[18], ve compatisso. El dise: quando el donator ha fatto sta donazion, giera dodes’anni ch’el giera maridà, fin allora no l’aveva abù fioi, onde el se podeva persuader de non averghene più. Vardè se questa xe una rason da dir a un giudice de sta sorte. Quanti anni gh’aveva la siora Ortensia Aretusi, quando Anselmo so mario ha fatto sta donazion? Vardè, sior lettor caro, a carte otto, tergo.

LETT. (Guarda a carte otto, e legge) Fede della morte della signora Ortensia Aretusi...

ALB. No, no, otto tergo.

LETT. Fede della morte...

ALB. Tergo, tergo.

LETT. (Lo guarda, e ride con modestia)

ALB. Ah! no savè cossa che vuol dir tergo? E sì a muso lo doveressi saver. Vardè da drio, alle carte otto. (Oh che bravo lettor!) (da sé)

LETT. Fede come nell’anno 1725...

ALB. Che xe l’anno della donazion.

LETT. La signora Ortensia, moglie del signor Anselmo Aretusi, aveva...

ALB. Aveva...

LETT. Anni...

ALB. Anni...

LETT. Trentadue...

ALB. Trentadue...

LETT. Ed era in quel tempo...

ALB. Basta cussì, che me fe vegnir mal. La gh’aveva 32 anni, e so mario desperava de aver più fioi? No l’aveva miga serrà bottega, per dir che no ghe giera più capital. Oh! che caro sior dottor Balanzoni! Sentì più bella: con sta fede, el padre della signora avversaria ha concesso so fia all’Aretusi, altrimenti nol ghe l’averave dada. Perché no s’alo fatto far una piezaria dalla siora Ortensia de far divorzio da so mario? Ma bisogna che sta piezaria[19] o ella, o qualchedun altro, ghe l’abbia fatta, perché su sta fede l’ha collocà le altre do fie, a quelle el gh’ha dà tutto, e questa nol l’ha considerada per gnente. L’è morto senza gnente, e ella no la gh’ha gnente. Da sto fatto l’avversario desume una rason, che s’abbia da laudar[20] la donazion, perché una povera putta no abbia da restar affatto despoggia. Xe ben che la sia vestida, ma se per vestirla ella s’ha da spoggiar un altro, più tosto che la resta nua, che la troverà qualchedun che la vestirà. La resta senza casa e senza alimenti? Mo no gh’ala el sior zio, che xe fradello del padre, e che xe obbligà in caso de bisogno a soccorrer i so nevodi? Dopo che l’avvocato avversario ha dito ste belle cosse, el s’ha impegnà de provarle tutte, perché i giurisconsulti della so sorte se vergogna parlar senza i testi alla man. Ma el s’ha ridotto a provarghene una sola, e saria stà meggio per lu che nol l’avesse provada, perché, la so prova, prova contra de lu medesimo. El dise: non osta l’obietto della sopravenienza dei fioi, perché questa opera quando la donazion xe fatta all’estraneo, no quando l’è fatta a qualch’altro fiol. La fia adottiva se paragona al fiol legittimo e natural, ergo la donazion no xe revocabile. Falso argomento, falsissima conseguenza. El fio adottivo se considera come legittimo e natural, quando manca el legittimo e natural. Co i xe in confronto, el fio per elezion cede al fio per natura, ma de più, se se trattasse de do fioi legittimi e naturali, e el padre avesse donà a uno per privar l’altro, no tegnirave la donazion. Più ancora, se el padre avesse donà a un unico fio legittimo e natural, e dopo ghe nascesse uno o più fioi, sarave revocada la donazion; donca molto più la va revocada nel caso nostro, nel qual se tratta de escluder un fio a fronte d’una straniera. Ecco i gran obietti, ecco le terribili prove. Tutte cosse che no val niente, cosse indegne della gravità del giudice che ne ascolta; e mi, che son l’infimo de tutti i avvocati, arrossisso squasi a parlarghene lungamente: che però vegno all’ultimo obietto, salvà per ultimo dall’avversario, perché credudo el più forte, ma che, in quanto a mi, lo metto a mazzo coi altri. El dise: fermeve, che se la donazion me scantina[21], come donazion, ve farò un barattin[22], e de donazion ve la farò deventar testamento. E qua el me fa la distinzion legal della donazion, inter vivos e causa mortis; e perché la donataria no podeva conseguir l’effetto della donazion, se non dopo la morte del donator, el dise: la xe una donazion causa mortis; la donazion causa mortis habet vim testamenti, onde non avendo fatto el donator altro testamento, questa se deve considerar per el so testamento. Fin adesso el mio riverito avversario; adesso mo a mi, e per vegnir alle curte, con un dilemma ve sbrigo. Voleu che la sia donazion, o voleu che el sia testamento? Se l’è donazion l’è invalida, se l’è testamento nol tien. Forti a sto argomento, dai filosofi chiamà cornuto, e vardevene ben, che el ve investe da tutte le bande. Se l’è donazion, l’è invalida, perché per la sopravenienza dei fioi se revoca la donazion. Se l’è testamento, nol tien, perché quel testamento che no considera i fioi, che li priva dell’eredità e della legittima, i xe testamenti ipso jure nulli; e i xe nulli per le nostre venete leggi, e i xe nulli per tutte le leggi del jus comun. Onde donazion invalida, testamento no tien, questa xe una tenacca, da dove no se se cava, senza perder el matador. Ma el matador l’avè perso, e mi la causa l’ho vadagnada, perché so con chi parlo; l’ho vadagnada, perché so de che parlo. Parlo con un giudice che intende e che sa; parlo d’una materia più chiara della luse del sol. Da un’unica carta dipende la disputa, la controversia, el giudizio. Sta carta xe invalida, la va taggiada[23], el giudice la taggierà: perché la donazion no sussiste, né come donazion, né come testamento; perché un fiol legittimo e natural non ha da esser privà dell’eredità paterna a fronte de una straniera; perché in sto caso, dove se tratta della verità e della giustizia, non ha d’aver logo la compassion; perché se l’avversaria resterà miserabile, sarà colpa del padre de natura, no del padre d’amor, dal qual senza debito e con danno del fiol che defendo, l’è stada mantenuda e custodida per tanti anni; e in ancuo[24], quel che ha fatto Anselmo Aretusi per carità, lo pol far, e lo farà, l’avvocato Balanzoni per obbligo e per dover; e sarà effetto della giustizia taggiar la donazion, previa la revocazion della tal qual sentenza a legge avversaria, in tutto e per tutto a tenor della nostra domanda, compatindo l’insufficienza dell’avvocato che malamente ha parlà. (s’inchina e va dietro al tribunale, dove vi è il Servitore che gli mette il ferraiuolo ed il cappello; e col fazzoletto coprendosi la bocca, parte col Servitore.)

GIUD. (Suona il campanello. Tutti si alzano, fuorché esso Giudice ed il Notaro)

COM. Signori, tutti vadano fuori.

(Tutti, facendo riverenza al Giudice, s’incamminano. Il Dottore dà mano a Rosaura, che si asciuga gli occhi)

DOTT. Non piangete, che vi è ancora speranza. (a Rosaura)

ROS. Speranze vane! Sono precipitata. (parte col Dottore e col Sollecitatore)

LEL. Che ne dite? Si è portato bene? (a Florindo)

FLOR. Non potea dir di più. (parte con Lelio)

GIUD. (Detta sottovoce la sentenza al Notaro, il quale scrive; intanto si tirano in disparte il Lettore ed il Comandador a discorrere assieme)

COM. Come va, signor Agapito? Fate il lettore e non sapete leggere?

LETT. Vi dirò: quella povera ragazza mi faceva tanta pietà, che mi cascavano le lagrime e non ci vedeva.

COM. Io avrei più gusto che la vincesse il signor Florindo.

LETT. Perché?

COM. Perché da lui potrei sperare una mancia migliore.

LETT. Ma che dite di quel bravo avvocato veneziano? Grand’uomo di garbo! E sì, quando lo dico io!...

COM. Certo è bravissimo. Ma a Venezia ne ho sentiti tanti e tanti più bravi di lui.

LETT. Sì eh? Oh, se posso, voglio andare a fare il lettore a Venezia.

COM. Se non sapete che cosa voglia dir tergo.

LETT. E voi volete mettere la lingua dove non vi tocca.

GIUD. (Suona il campanello)

COM. (Va alla porta) Dentro le parti.

SCENA TERZA

Il Dottore col suo Sollecitatore. Florindo, Lelio ed il Sollecitatore di Alberto, e detti.

Vengono ognuno dalla sua parte, e s’inchinano al Giudice

NOT. (Si alza e legge la sentenza) L’illustrissimo signore...

DOTT. La supplico. La non istia a incomodarsi a leggere il preambolo: la favorisca di farci sentire l’anima della sentenza.

NOT. Omissis etc. Consideratis, considerandis, etc. Decretò e sentenziò, e decretando e sentenziando tagliò, revocò e dichiarò nulla la donazione fatta dal fu Domino Anselmo Aretusi a favore di Domina Rosaura Balanzoni, annullando la sentenza a legge pronunziata a favore della medesima, in tutto e per tutto a tenore della domanda di interdetto di D. Florindo Aretusi, condannando D. Rosaura perdente nelle spese ecc. ecc. sic. etc. ordinando etc. relassando etc.

FLOR. L’abbiamo vinta. (a Lelio)

LEL. Mi rallegro con voi.

DOTT. Condannarmi poi nelle spese...

GIUD. Se non vi piace, appellatevi. (s’alza, e parte)

DOTT. Obbligatissimo alle sue grazie. Intanto che mi beva questo siroppo. Andiamo pure. Io non ne vo’ saper altro. (parte col Sollecitatore)

FLOR. Signor notaro, farà grazia di farmi subito cavare la copia della sentenza.

NOT. Sarà servita.

FLOR. Favorisca. (gli vuol dare del denaro)

NOT. Mi maraviglio. (lo ricusa in maniera di volerlo)

FLOR. Eh via! (glielo mette in mano)

NOT. Come comanda. (lo prende, e parte guardandolo)

COM. Illustrissimo, mi rallegro con lei. Sono il comandador, per servirla. (a Florindo)

LETT. Ed io il lettore ai suoi comandi. (a Florindo)

FLOR. Sì, buona gente, v’ho capito. Tenete, bevete l’acquavite per amor mio. (dà la mancia a tutti due)

LETT. Obbligatissimo a vossignoria illustrissima.

COM. Viva mille anni vossignoria illustrissima.

FLOR. Andiamo a ritrovare il signor Alberto. (a Lelio)

LEL. Amico, si è meritata una buona paga.

FLOR. Trenta zecchini vi pare saranno abbastanza?

LEL. L’azione eroica che ha fatto, ne merita cento; voi m’intendete senza che io parli.

FLOR. È vero, gli voglio dare ora subito cinquanta zecchini, e poi a suo tempo vedrà chi sono.

LEL. Non mi credeva che un uomo fosse capace di tanta virtù. (parte)

FLOR. Se trovo quell’indegno del Conte, lo vo’ trattar come merita. (parte)

COM. Quanto vi ha dato?

LETT. Un ducato. (lo mostra)

COM. Ed a me mezzo? Maladetto! A me mezzo ducato, che son quell’uomo che sono, e un ducato a colui, che non sa nemmeno che cosa sia tergo. (parte)

LETT. Grand’asinaccio! Si vuol metter con me! Si vuol mettere con un lettore? Sono stato io, che gli ho fatto guadagnar la causa. Ho una maniera di leggere così bella, che il giudice capisce subito il merito della ragione. (parte)

SCENA QUARTA

Camera di Beatrice.

 

Beatrice e Colombina

BEAT. Credetemi Colombina, che io sono impaziente per intendere l’esito di questa causa; amo la signora Rosaura, e mi dispiacerebbe infinitamente vederla afflitta. Ho mandato Arlecchino, perché senta chi ha vinto o chi ha perso, e me ne porti subito la relazione.

COL. Avete veramente mandato un soggetto di garbo. Intenderà male, e riporterà peggio.

BEAT. Eccolo.

SCENA QUINTA

Arlecchino e dette.

ARL. Son qua; allegramente.

BEAT. Chi ha vinto?

ARL. Non lo so.

BEAT. Se non lo sai, perché dici allegramente?

ARL. Perché a Palazzo ho sentito a dir che i ha vinto la causa.

BEAT. Ma chi l’ha vinta?

ARL. Se ghe digo che no lo so.

COL. Non l’ho detto io che è uno sciocco?

BEAT. Asinaccio! Ti mando per sapere chi ha vinto; ritorni, e non lo sai?

ARL. Savì chi credo che abbia vinto? I avvocati.

COL. Avrà vinto uno dei due avvocati.

ARL. Sior no: i avrà vinto tutti do, perché i sarà stadi pagadi tutti do.

COL. Sei un buffone.

BEAT. Ed io non posso sapere come sia la cosa. (si sente picchiare) È stato picchiato. Colombina, va a vedere.

COL. Vado subito. Se la signora Rosaura ha vinto, mi darà la mancia.

ARL. La spartiremo metà per un.

COL. Sì, come hai spartiti li due zecchini. (parte)

BEAT. Che cosa dice di due zecchini?

ARL. Ghe dirò mi. La sappia che i do zecchini... siccome el candelier del sior conte Ottavio; anzi, per la sentenza del signor Dottor Balanzoni, i ho trovadi mi; e Colombina, per amor delle faccende de casa... Ma no, la sappia che mi son omo onorato, che el candelier l’era sul tavolin, e così...

BEAT. Va al diavolo, sciocco.

ARL. Servitor umilissimo. (parte)

SCENA SESTA

Beatrice, poi Alberto, poi Colombina

BEAT. Costui non sa mai quel che diavol si dica. Ma ecco il signor Alberto.

ALB. Ghe domando scusa, se me son preso l’ardir d’incomodarla.

BEAT. E bene, come è andata la causa?

ALB. La causa l’ho guadagnada, ma ho perso el cuor.

BEAT. E la povera signora Rosaura ha persa la lite?

ALB. E la povera signora Rosaura ha perso la lite. (sospira)

BEAT. Sì, fate come il coccodrillo, che uccide e poi piange.

ALB. Se la vedesse qua dentro, no la dirave cussì. Son qua da ella, za che la gh’ha tanto amor per siora Rosaura e tanta bontà per mi, son qua a pregarla con tutte le vissere, con tutto el cuor, a rappresentarghe el mio rincrescimento, assicurarla del mio dolor.

BEAT. Io non ho difficoltà di farlo, ma quest’ufficio sarebbe grato alla signora Rosaura, se lo faceste da voi.

ALB. La vede ben, a mi no me xe lecito de andarla a trovar a casa. No ghe son mai stà; per nissun titolo me posso tor una tal libertà.

BEAT. Trattenetevi qui. Può essere che ella venga a sfogar meco le sue passioni.

ALB. El ciel volesse che la vegnisse! Chi sa? Se la gh’ha per mi quell’istessa bontà che la mostrava d’aver, gh’ho un progetto da farghe, che me lusingo la poderà risarcir.

COL. Signora padrona, è qui la signora Rosaura che vorrebbe riverirla.

ALB. La fortuna me favorisse.

BEAT. Dille che è padrona.

COL. (Poverina! è molto malinconica! Causa questo signor veneziano!) (parte)

BEAT. Eccola, signor Alberto.

ALB. Oimè! che sudor freddo! Tremo tutto. Per amor del cielo, la lassa che me sconda per un pochetto; vôi sentir come che la pensa de mi.

BEAT. Vedete; in questa camera non vi è altra porta che quella: da dove, se uscite, incontrate per l’appunto la signora Rosaura. Sentitela che sale le scale.

ALB. Se la me assalta con collera, dubito de morir sulla botta. La prego, la lassa che me sconda sul pergolo, che me serra drento, che senta con che caldo la concepisse el motivo della so desgrazia. Cara ella, no la ghe diga gnente. La me fazza sto piaser.

BEAT. Fate ciò che vi aggrada, non parlerò.

ALB. Fortuna, te ringrazio; sentirò senza esser visto, e prenderò regola dai effetti della so passion. (va sul poggiolo, e si serra dentro)

BEAT. Grand’amore ha il signor Alberto per Rosaura; e ha avuto cuore di farle contro? Io non la so capire.

SCENA SETTIMA

Rosaura, Beatrice ed Alberto nascosto.

BEAT. Cara amica, quanto me ne dispiace.

ROS. L’avete saputa la nuova?

BEAT. Pur troppo. Via, consolatevi. Sarà quello che il cielo vorrà. La sorte vi assisterà per qualche altra parte.

ROS. Eh! cara Beatrice, per me è finita. La causa è persa: mio zio, che ha da supplire alle spese di questa, non ne vuol saper altro, non si vuole appellare.

BEAT. E il Conte che dirà?

ROS. Il Conte si è dichiarato pubblicamente che, se perdo la lite, non mi vuol più.

BEAT. Vostro zio vorrà condurvi seco a Bologna.

ROS. Pensate! Mi ha detto a lettere cubitali che non vuole più saper nulla di me, che è povero anch’esso, che ha la sua famiglia in Bologna, e che non può soccorrermi.

BEAT. Sicché dunque, che risolvete di fare?

ROS. Qualche cosa sarà di me. Il cielo sa che ci sono; il cielo mi assisterà.

BEAT. Il signor Alberto mostra avere per voi della parzialità e dell’amore.

ROS. Oh, cara amica! Il signor Alberto se ne anderà fra poco a Venezia, e non si ricorderà più di me. Barbaro, inumano! Se l’aveste sentito come parlava! Pareva che io fossi la sua più crudele nemica.

BEAT. Mi avete detto però più volte, che considerando il suo impegno, eravate costretta a compatirlo.

ROS. Non credeva che parlar dovesse con tanto calore. La sua disputa mi ha atterrito. Le sue parole mi hanno strappato il cuore. Mi sono lusingata che egli mi amasse, ma non è vero. Contro chi si ama, non si inveisce a tal segno. Poteva difendere il suo cliente, ma non mettere in derisione me, la mia causa ed il mio difensore. Oimè! Che fiero caldo mi opprime! Amica, fatemi portare un bicchier d’acqua fresca.

BEAT. Subito. Vado io stessa a prenderla. Fate una cosa, se avete caldo, andate sul terrazzino a prendere un poco d’aria. (Vo’ lasciar che la natura operi). (da sé, parte)

SCENA OTTAVA

Rosaura, poi Alberto

ROS. Non dice male. Aprirò il terrazzino, e prenderò un poco d’aria. (apre e vede Alberto) Oimè! questo è un tradimento.

ALB. No, siora Rosaura, non son qua per tradirla, ma per consolarla, se posso.

ROS. Sarà una consolazione compagna a quella che mi avete data nel tribunale.

ALB. Ma no sala el mio impegno? Non ala approvà ella istessa, con tanto merito, le giuste premure del mio onor, della mia estimazion?

ROS. Sono miserabile per causa vostra.

ALB. Chi fa el mal, ha da procurar el remedio. Per causa mia la xe ridotta in sto stato, e mi son qua prontissimo a remediarghe.

ROS. Oh Dio! ma come?

ALB. Ella ha perso un stato comodo, un mario nobile, mi ghe offerisso un stato mediocre, un consorte civil.

ROS. E chi è mai questo, che abbassare si voglia alle nozze d’una infelice?

ALB. Mi, siora Rosaura, mi che conossendo el so merito, la so bontà, i so boni costumi, l’amor che la gh’ha per mi, sarave un ingrato, un barbaro, un senza cuor, se no cercasse de reparar co la mia man i danni che gh’ha cagionà la mia lengua.

ROS. Cari danni, dolci pene, perdite fortunate, se mi rendono la più felice, la più fortunata donna di questa terra. Ma, oh Dio! Voi mi lusingate, voi me lo dite per acquietare i tumulti della mia passione.

ALB. Ghe lo digo de cuor, ghe lo digo de vero amor; e per prova della verità, confermo la mia promessa col zuramento, e ghe offerisso la man.

ROS. Oh dolcissima mano! Tu non mi fuggirai certamente. Tu sei la mia speranza, il mio refugio, l’unica mia consolazione. Ti stringo, t’adoro, a te mi raccomando: abbi pietà di questa povera sventurata. (lo tiene per mano)

ALB. Sì, cara, sì, colonna mia...

SCENA NONA

Beatrice con un Servo che porta un bicchiere d’acqua, e detti.

BEAT. Bravi, bravissimi. Me ne rallegro infinitamente. Rosaura, vi ho portato un bicchiere d’acqua, ma ora ve ne vorrà una secchia per ammorzare il nuovo calore.

ROS. Amica non so dove io mi sia.

BEAT. Non lo sapete? Ve lo dirò io. In compagnia di un bel pezzo di giovinotto, che vi farà passare la malinconia della lite.

ALB. La xe arente un omo d’onor, che coll’amor più illibato del mondo cerca de consolar una povera giovane, piena de virtù e de merito, e circondada da spasemi e da desgrazie.

BEAT. Siate benedetto. Avete un cuore adorabile. Ehi! dite, la volete sposare?

ALB. Se ella se degna, la stimerò mia fortuna.

BEAT. Se si degna? Capperi se si degnerà! (Mi degnerei anch’io).

SCENA DECIMA

Lelio, Florindo e detti.

LEL. Con permissione della signora Beatrice. Amico, vi abbiamo ricercato da per tutto, e non vi abbiamo trovato; abbiamo saputo che eravate qui, e ci siamo presi la libertà di qui venire per abbracciarvi, e consolarci con voi della eroica azione che avete fatta. (ad Alberto)

ALB. Cossa disela, sior Florindo? Ala più zelosia de vederme vicin alla so avversaria?

FLOR. No, caro signor Alberto; anzi vi chiedo scusa de’ miei troppo ingiusti sospetti. Voi siete il più illibato, il più prudente, il più saggio uomo del mondo: da voi riconosco la mia vittoria; molto dovrei fare per ricompensare le vostre virtuose fatiche; ma vi prego per ora degnarvi di accettare per una caparra delle mie obbligazioni questi cinquanta zecchini, che vi offerisco. (gli presenta una borsa)

ALB. Sior Florindo amatissimo, no è per superbia né per avarizia, che ricuso la generosa offerta che la me fa; perché l’omo, de qualunque profession el sia, nol s’ha da vergognar de ricever el premio delle so fadighe, e riguardo al mio merito, cinquanta zecchini i xe anca troppi; la prego però de despensarme dall’accettarli, e permetterme che li ricusa, senza offenderla e senza disgustarla. La rason, perché no li accetto, xe ragionevole e giusta. La mia disputa, per un ponto d’onor, ha ridotto in miseria la povera signora Rosaura, e no vôi che se creda che abbia sacrificà alla mercede l’amor che aveva per ella.

FLOR. Sentimenti eroici e sublimi, degni d’un uomo del vostro merito e della vostra virtù.

ALB. La diga d’un avvocato onorato.

FLOR. Ma vi prego a non lasciarmi col rossore di vedermi ingrato e sconoscente con voi.

ALB. La fede che l’ha avudo in mi, non ostante tutte quelle false apparenze che me voleva far creder reo, xe una mercede che ricompensa ogni mia fatica.

FLOR. Giacché ricusate questo denaro, fatemi un piacere; ve lo domando per grazia, per finezza; degnatevi di accettare questo piccolo anello, per una memoria della mia gratitudine. Val meno dei cinquanta zecchini, ma poiché volete così, non ricusate il dono, se ricusaste la ricompensa.

ALB. Orsù, no voggio con un affettada ostinazion confonder la virtù coll’inciviltà. Acetto l’anello che la me dona, e la varda che bell’uso che ghe ne fazzo; qua, alla so presenza, lo metto in deo alla mia novizza.

LEL. Come! È vostra sposa?

FLOR. Rosaura vostra consorte?

ALB. Sior sì, patron sì. Mia sposa, mia consorte. Ella aveva bisogno d’uno che rimediasse alle so disgrazie, mi aveva bisogno d’una che assicurasse la quiete e el decoro della mia fameggia, e se fazzo el bilanzo del so merito e del mio stato, trovo aver mi vadagnà moltissimo più de ella.

LEL. Me ne rallegro infinitamente. Faremo le nozze in casa mia, se vi compiacete.

ALB. Acetto le vostre grazie; e za che el sior Florindo m’ha dà l’anello, se el se degna, lo prego d’esser compare dell’anello[25] de mia muggier[26].

FLOR. Molto volentieri accetto l’onore che voi mi fate. Signora Rosaura, signora comare, vi chiedo scusa se vi sono stato nemico; in avvenire vi sarò buon servitore e compare.

ROS. Gradisco infinitamente le vostre generose espressioni. Compatisco la cagione che vi rendeva di me avversario, e mi sarà d’onore la vostra cortese amicizia.

BEAT. Cara la mia sposina, venite qua; lasciate che vi dia un bacio. Mi fate piangere dall’allegrezza. (le dà un bacio)

LEL. Ma il Conte che dirà?

BEAT. Si è protestato che, se Rosaura perde la lite, non la vuol più.

ALB. No se pol però concluder sto matrimonio, se no se strazza el contratto del Conte. Voggio che femo le cosse come che va.

FLOR. Il contratto del Conte lo romperò io, perché gli romperò ben bene la testa. Indegno! impostore! calunniatore! bugiardo!

SCENA ULTIMA

Il dottore vestito da campagna, e detti.

DOTT. Servitor di lor signori.

ROS. Signore zio, da campagna?

DOTT. Signora sì, vado a Bologna. Ho saputo che siete qui, e son venuto a vedervi.

ROS. Ed io che farò in Rovigo senza di voi? Come volete ch’io viva?

DOTT. Cara la mia figliuola, mi si spezza il cuore, ma non so che cosa farvi. Son pover’uomo ancor io. Sperava anch’io sull’esito della lite, ma siamo restati delusi.

ROS. Consolatevi, che il cielo mi ha provveduto.

DOTT. Sì? In che modo?

ROS. Sono sposa del signor Alberto.

DOTT. Dite da vero, la mia ragazza?

ALB. Sior sì, xe la verità. La sarà mia muggier, se el sior Balanzoni se degna de sto matrimonio.

DOTT. Anzi ne provo tutta la consolazione. Non poteva avere una nuova più felice di questa. Signor avvocato, le sarò zio amoroso e servitore obbligato.

ALB. E mi la venero come mio barba, mio patron, e, poderia dir, mio maestro...

DOTT. Ora so che mi burla.

ALB. Me despiase che, per concluder sto matrimonio, sarà necessario far renunziar legalmente al sior Conte le so pretension.

DOTT. Consolatevi, che le ha rinunziate.

FLOR. Come! dove è il Conte?

DOTT. È ritornato alle sue montagne, e prima di partire, con un monte di villanie, mi ha restituita la scrittura stracciata; ed eccola qui.

ALB. Co l’è cussì, podemo sposarse quando volemo.

ROS. Io dipendo dai vostri voleri.

BEAT. Animo, animo, chi ha tempo, non aspetti tempo.

ALB. Ecco che alla presenza del so sior zio, del sior compare, e de sior Lelio, ghe dago la man.

ROS. Ed io l’accetto, e prometto di essere vostra sposa.

ALB. Siora Rosaura, mia cara sposa, mia diletta muggier, adesso xe el tempo de metter in pratica quella bella virtù che fin al presente l’ha coltivà. Ella passa dal stato felice della libertà a quello laborioso del matrimonio. Mi ghe vôi ben, sempre ghe ne vorrò; in casa mia spero che gnente ghe mancherà. La meno in una gran città, dove abbonda le ricchezze, i spassi, i divertimenti. Ma giusto per questo, la se prepara de metter in opera tutta la so virtù. Dell’amor del mario no la se ne abusa; del stato comodo no la se insuperbissa; i spassi e i divertimenti la i toga con moderazion. Perché l’amor se coltiva coll’amor; le fameggie se conserva colla prudenza; i divertimenti i dura, co i xe discreti. La compatissa, se cussì subito, e a prima vista, ghe fazzo una specie de ammonizion, perché se tutti i maridi fasse sta lizion alla sposa el dì delle nozze, se vederave manco matrimoni odiosi, manco fameggie precipitade, manco femene descreditade. Perché no ghe xe cossa che rovina più la muggier, quanto la condiscendenza del poco savio mario.

Fine della Commedia.



([1]) Ponto è lo stesso che articolo.

([2]) Articolo legale.

([3]) Lungo il fiume Brenta sono le più belle villeggiature de' Veneziani.

([4]) Trattar la causa è lo stesso che disputare secondo lo stile veneto.

([5]) Mi move a compassione.

([6]) In renga, in arringa.

([7]) Costume di quasi tutti gli avvocati veneti nel calor della disputa.

([8]) Termine di galanteria con cui si trattano le donne civili.

([9]) Bulade, bravate.

([10]) Vesta che si dice della toga che portasi dagli avvocati.

([11]) Il mezzà vuol dire lo studio.

([12]) Non avete un principio di ragione.

([13]) Ponto de rason, articolo legale

([14]) In Venezia si accostumano le Accademie, nelle quali la gioventù si esercita nell'arringare.

([15]) Fie, figlie.

([16]) Fia de anema, figlia per affetto, o sia adottiva.

([17]) Sgnanfo, si dice chi parla nel naso.

([18]) Nezza, nipote.

([19]) Piezaria, mallevadoria.

([20]) Laudar, termine del Foro Veneto, che significa confermar.

([21]) Scantina, traballa.

([22]) Barattin, scambietto.

([23]) Taggiar, termine del Foro Veneto, che significa annullare o revocare.

([24]) In ancuo, in oggi.

([25]) Costume dello Stato veneto di chiamar compare dell’anello chi serve per testimonio agli sponsali.

([26]) Muggier, moglie.

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