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Carli 25.01.07 - consumatori cittadini e mercato del lavoro

Carli 25.01.07 - consumatori cittadini e mercato del lavoro

CONSUMATORI, CITTADINI E MERCATO DEL LAVORO IN ITALIA

Latente conflittualità con le strutture organizzative, specie nelle PMI; insoddisfazioni economiche ed etiche. Sono queste le consuete motivazioni per cambiare datore di lavoro.

Purtroppo, però, in Italia, il cambio spesso non paga; anzi.

Il dramma però non è solo personale, ma lo è sia per il Sistema Paese, che per il Mercato.

a cura di Carlo C. Carli ([1])

Da ricerche risulta che 1 lavoratore su 5 si propone di cambiare impiego ([2]).

I motivi più frequenti:  migliorare guadagni, prospettive carriera, rapporto con dirigenti o struttura.

Dalle ricerche, però, sembrano derivare grosse disillusioni a chi pensava che l’Italia fosse – come in USA o in Nord Europa – un mercato che promovesse un turn over lavorativo.

I risultati dicono, infatti, che normalmente le posizioni migliori sono prese da chi già sta in azienda; che la stanzialità paga più del cambiamento; che le condizioni stesse per possibili cambiamenti sono scarse e non solo quantitativamente, ma anche a motivo delle varie vischiosità del mercato.

Muoversi paga soprattutto nelle prime fasi di sviluppo della propria carriera. Sono i giovani a trarre benefici dai passaggi un impresa all’altra (non sempre volontariamente), visto che gli incrementi salariali avvengono soprattutto nella prima fase. Dai dati dell'Isfol emerge che poco meno della metà degli occupati (il 46%) ha cambiato almeno una volta mestiere o professione nella propria vita lavorativa, ma per il 50% di loro non c'è stato alcun miglioramento in termini di affermazione e carriera mentre per oltre il 58% non ci sono stati miglioramenti retributivi.

Secondo i recenti dati dell’ultimo Eurobaromentro, il 21% degli italiani non ha mai cambiato azienda durante l’arco della propria carriera professionale e il 47% lo ha fatto tra una e 5 volte. Solo il 3% più di sei volte. Il 28 per cento lavora con lo stesso datore di lavoro da più di dieci anni e il 13% da almeno sei anni. Solo il 3% da meno di un anno. E tra chi cambia spesso è perché ci si trova in qualche modo costretti a passare da azienda in azienda più perché costretti che di propria scelta.

Addirittura, per 6 su 10 lavoratori che hanno cambiato non c'è stato miglioramento retributivo.

Ma, quel che è peggio, la vischiosità di varia natura che è propria del nostro mercato - non ultimo l’ingessamento determinato da una antiquata normazione sia ordinistica sia contrattuale per le professionalità – determina delle condizioni alterate per acquisire i miglioramenti di posizione. In pratica: non sempre è il merito quel che paga.

In Italia, secondo i dati Plus-Isfol, solo il 49,9 per cento degli italiani è soddisfatto delle prospettive di carriera. E la retribuzione attuale appaga solo il 53,8% dei lavoratori.

Peraltro c’è, secondo gli esperti, una stretta correlazione tra il livello di soddisfazione del lavoro e la voglia di cambiare lavoro. Tanto che si arriva anche a parlare di una specie di ciclo periodico in cui si alternano l’insoddisfazione per il lavoro, l’effetto "luna di miele" appena si cambia lavoro (con una specie di felicità indipendente dalle condizioni oggettive) a cui fa seguito una inesorabile “ricaduta”. Con il rischio che dopo qualche mese si ripresenti il problema.

Ed è nelle imprese medie e piccole dove i dipendenti si sentono più spinti a lasciare la strada vecchia. Ciò in conseguenza soprattutto della difficoltà di sostituire il “vecchio” lavoratore e quindi devono aumentare le offerte.

Queste imprese, che pure formano il tessuto produttivo italiano, spesso non forniscono prospettive di carriera ed è quindi meglio provar di cambiare.

Cambiando si cresce, ma attenzione, il cambio fa bene se non è molto frequente.

A rendere difficili le cose ci si mette anche il difficile rapporto con la struttura e, in genere, con il capo.

E’ un dato di fatto che le persone vengano stressate da chi ricopre posizioni di comando. A volte, ciò è fisiologico, dovendosi fornire degli obiettivi di risultato. Spesso, però, i motivi di disagio sono di carattere ambientale ed etico.

Secondo i dati dell’indagine realizzata da Kelly Services, gli italiani sono tra i lavoratori che vanno meno d’accordo con i capi. I voti bassi quasi su tutti gli aspetti, appena sufficiente per capacità di leadership e attitudine alla delega delle responsabilità e insufficiente per la capacità comunicativa e spirito di squadra.

I lavoratori più critici sono quelli con maggiore esperienza: chi ha 35 anni assegna un 5,9 e chi ha 45 / 54 anni un 5,5.

Da fonte EUROBAROMETRO, veniamo a sapere che in Italia 21% dei lavoratori non ha mai cambiato impiego; il 3% lo ha cambiato da 6 a 10 volte.

La media UE pone il primo dato al 18%, il secondo a 9%; mentre sale al 55% le persone che hanno cambiato da 2 a5 volte.

In tutto ciò, però il dato impressionante è fornito dalla scarsa capacità etica e ambientale del nostro apparato produttivo (formato da industria e istituzioni), dotato di poca capacità di motivazione.

Il Sistema Paese dovrebbe infatti essere in grado di fornire validi punti di riferimento ai propri giocatori. Giocatori che, per dirla alla maniera dell’analisi economica del diritto, devono trovare efficiente formulare delle scelte e perseguirle. Se il merito non premia, non verrà più ricercato, a favore di altre strade.

Anche il distacco tra mondo della ricerca e quello produttivo è letale.

E ciò, specie oggi che siamo nel pieno di una “cultura del fare” (e non “del sapere”) e dove la vera ricchezza è costituita non solo dalle conoscenze acquisite con studi e con esperienze, ma anche dalle capacità di adattamento.



[1] Giureconomista, specializzato in diritto dei consumatori, conciliazione, comunicazione istituzionale

[2] Si vedano gli interessanti articoli di FEDERICO PACE, Cambiare lavoro, il sogno impossibile dell'impiegato (http://miojob.repubblica.it/notizie-e-servizi/interviste/dettaglio/Cambiare-azienda-Meglio-dopo-aver-raggiunto-un-obiettivo/1972542 ).

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